C'era una volta Bedrich...

I

Tanti anni fa, ai tempi di sua Maestà Rodolfo d’Austria, c’era un pover’uomo di nome Bedrich che versava troppo sudore per la sua terra. Quant’era ingrato questo campo con quelle zolle che non si rompevano, quante bestemmie prima che si girassero soltanto! Maledetta fatica, si ripeteva il disgraziato, ma senza bestie né dispensa aveva forse di che scegliere? Meglio non pensarci troppo o il campo ci mette poco a diventar duro come roccia.
Si finisce un bella buca, vi si gettano due o tre semi, e mentre con le mani la richiude si mette anche ad implorar il Signore. Prego la tua benevolenza, dice quasi solenne, restituiscimi qualcosa di questa pena. E formato un mucchietto di terra riprende tosto la zappa, andando ad aprire poco più in là un’altra fossa. 
Passa la giornata e il sole inizia a scendere lungo l’orizzonte. Il buon Bedrich ormai sazio di lavoro raccoglie gli attrezzi e s’incammina verso il meritato riposo, anche perché col freddo di allora conveniva tornar presto per non rischiare un malanno. Almeno la casa ce l’aveva vicina da dove si spezzava la schiena, tanto che se il cielo era limpido poteva vedere bene quella e pure il cortile delle galline che vi aveva costruito appresso.
Chissà se la moglie aveva provato a cercarlo, si domandò, magari sbirciando da una finestra, ma non ci sperava. Entrato in casa la trovò come sempre a riposare sul giaciglio, girandosi pian piano per salutarlo con voce molto debole. Quand’egli vide, seppur per breve istante, quei suoi grandi occhi chiari tornar luccicare gli mancò il respiro, perché nonostante la malattia ella manteneva ancora traccia della bellezza che l’aveva incantato. Di fronte a tale vista si convinse che valeva la pena di sopportare ogni genere di fatica, tutto per esaudire la speranza di rivederla in piedi un giorno e di nuovo sbocciata.  
Dimentico di ogni cosa le si avvicinò per carezzarle il viso e giocare con le ciocche di capelli che le si sparpagliavano sulla fronte. Gli piaceva star così e chissà quanto vi avrebbe indugiato, se non fosse stato per una corrente insensibile venuta da fuori a raffreddargli il corpo e finanche il cuore. Schiacciato da questa gelida tristezza si alzò e raggiunse il focolare, che bisognava pure accenderlo o la notte non lasciava scampo. Una fiamma che scoppietta è comunque un gran balsamo ai dolori, che la si guardi da seduti o se ne ascolti il crepitio come il buon Bedrich che stava in piedi a preparar la cena. E che pasto con quello che si trovava dentro la credenza: una pagnotta indurita e una manciata di verdure ingiallite e morsicate da topi e insetti.
Quella sera si accontentò, ma non la mattina seguente perché con il rimanente sua moglie non ci poteva davvero andare avanti. Decise che avrebbe lasciato perdere il campo per qualche tempo, di avventurarsi tra i villaggi alla ricerca di qualcosa più degno di essere mangiato. Si preoccupava giusto di non far rumore per lei, ch’era immersa in un sonno talmente quieto che solo il movimento della coperta rassicurava davvero del suo respiro. Per avvertirla bastava lasciare un paio di scarpe sulla finestra e lei  avrebbe saputo che aspettarlo prima del tramonto era inutile.
Di fuori soffiava un’aria ancor più gelida dell’interno e Bedrich per ripararsi si mise sulle spalle una mantella di lana, più il berretto pesante. Ieri al campo non se li era portati sicuro com’era di riscaldarsi con la zappa, ma adesso che c’era da camminare molto non poteva proprio farne a meno. Quanto odiava il freddo di questa terra.



Si potevano camminare miglia e miglia di quei prati senza incontrar anima viva e guai a lasciar la strada se non si voleva finir chissà dove. Quel povero di Bedrich aveva dovuto vagare un’intera mattinata prima di trovare degli altri contadini piegati sulla terra come lui il giorno innanzi e il primo di loro che avvicinò si dilettava a gettar sassi da un solco pieno di questi e simile sozzura.
“Salute, buon uomo” esordì con tono modesto e pure così quello lo guardò di traverso, ma come biasimare il suo malanimo con di fronte un forestiero dagli abiti strappati e un viso scavato da miserabile. Bedrich lo sapeva, ma non era comunque per lui ragione di star in disparte.
“Salute” disse finalmente l’altro, ma ricominciò il suo lavoro tendendo braccia tanto forti che Bedrich si convinse non fosse granché bisognoso e proseguì oltre. E poi oltre quel campo c’erano molte altre case, altra gente, forse un paese, e magari laggiù avrebbe avuto maggior fortuna per un boccone.
Dopo altri due o tre rifiuti giunse a una porta malandata, su cui tante erano le fessure che dentro gli spifferi ne avevano di far baldoria. Se ne accorse anche da come il padrone, aprendo davanti a lui quel rottame, si muoveva così lento e dolorante che il buon Bedrich era già pronto all’opera.  
“Mi si spezza il cuore a vedervi, buon uomo” cominciò furbamente “Una spina senza dubbio punge meno di ogni vostra notte!”
“Non me ne parlare” rispose quello con una smorfia “A volte non riesco nemmeno ad alzare le braccia!”
“Perché non la sistemate allora?” insistette Bedrich “Non stareste forse meglio?”
“Quel diavolo di un falegname non si decide mai a venire!” ribatté l’altro “Ha sempre da fare!”
Era ora, Bedrich colse l’occasione e si offrì di ripararla lui, ma quello purtroppo non si fidava delle arti di uno sconosciuto e fu sul punto di mollarlo furioso. Quindi gli sovvenne un’idea e provò a chiedere dove stesse il famoso artigiano, partendo subito a cercar la bottega del Mastro Peter. Lungo le vie notò altre imposte rotte o cadenti, il che lo incoraggiava, lo spronava ad allungar il passo, finché arrivò davanti una bottega con un vecchio che segava una trave.
“Posso aiutarti, ragazzo?” domandò il falegname vedendo come gli si era parato davanti.
“Ho bisogno di mangiare” rispose Bedrich “In cambio naturalmente del mio lavoro”
“Questa poi!” esclamò divertito Mastro Peter “E perché dovrei aver bisogno di te?”
“Mio padre era un bravo carpentiere” aggiunse Bedrich “e da lui ho imparato qualcosa”
Se il vecchio non si liberò dello scocciatore fu soltanto per la decisione ch’egli mostrava, e spinto dalla curiosità lo volle mettere alla prova. Gli diede quindi una sedia da riparare e gli chiese di far presto. Nulla di più facile per Bedrich, che non aveva motivo di prenderlo in giro, e dopo averla restituita Mastro Peter si sedette restando colpito dalla sua abilità.
“Ben fatto, ragazzo!” disse annuendo soddisfatto.



Un giorno Bedrich tornò al suo campo, ma invece di calare la zappa vi si gettò rapido come una fiera. Pensava solo a strappar via le erbacce, a calpestar il terreno, zampillando d’odio per una terra capace solo d’ingratitudine. E dopo che la rabbia l’ebbe prosciugato del tutto, si lasciò cadere a terra esausto e a lungo rimase così immobile.  
Il suo campo abbondava di un’erbaccia lunga e sottile, a parte qualche piantina gravida di frutti per la maggior parte deformi e scuri da far ribrezzo, ma pur sempre dei frutti. Era cresciuto anche dell’altro, ma se ne accorse solo quando provò a rialzarsi, quando la mano che poggiò a terra si punse con una foglia spinosa che i fratelli più alti gli nascondevano alla vista.
Si mise a cercare il cesto gettato via e si avviò nella penosa raccolta. Aveva da ingoiarne vedendo quanti di questi frutti eran già rigonfi di marciume, e il sangue tornò a bollire in fretta, facendogliene stritolar uno con la mano. Arrabbiarsi così era inutile, concluse, perché doveva aspettarselo. Il lavoro in paese gli aveva fatto trascurare il resto e comunque lo sapeva che lì vi stava crescendo solo erbaccia, ci era passato ma non si era avvicinato per non trovare una conferma che lo spaventava.  
Povero Bedrich, ci aveva davvero sperato. Pensava di vendere i frutti e di comprarsi un pollo da far razzolare nel cortile che era rimasto vuoto, dopo che la moglie era svenuta proprio mentre dava da mangiare alle galline e aveva lasciato la porticina aperta. Sognava di avere di nuovo uova tutti i giorni, frittate e magari pulcini da allevare una volta cresciuti. E quando mai avrebbe venduto i mostri che aveva nel cestino, non sapeva neppure se si potessero mangiare!
Durante il ritorno soffiò la solita aria fredda e per ripararsi si cinse le braccia al petto fino a casa. Una volta dentro poggiò il cesto sul tavolo e andò a sciacquarsi la faccia nella tinozza ch’era rimasta al solito posto. La moglie continuava a dormire, tenendo la pancia sotto e il viso contro la parete. Neanche un saluto questa volta.
Lui la guardò comunque e tornò così a pensare alla storia del campo. Non aveva avuto scelta, si disse, che se non avesse lavorato da Mastro Peter forse non ci sarebbe stato altro modo di sfamarla in modo decente. Non poteva certo aspettare che i semi maturassero, per come erano maturati poi, e nel frattempo sarebbero morti tutti e due da un pezzo d’inedia. Finché aveva il lavoro da falegname in paese, continuò tra sé, potevano tener duro fino alla prossima stagione, provando a seminare in altra maniera e forse così avrebbe dato un buon raccolto. Sei un illuso, gli avrebbe detto forse suo padre, ma senza questo suo animo starebbe ancora a prender frustate dal padrone.
Il suo padrone, che brutto pensiero, gli venne una smorfia solo a ricordarselo! Per distrarsi si mise allora a pulire le sue verdure nella tinozza, prendendone una per tagliarla col coltello e assaggiarne finalmente un pezzettino. Non si aspettava certo che fosse buono, ma fu sorpreso che fosse anche tanto duro da masticare e se la moglie doveva mangiare quella robaccia, conveniva per forza bollirla a lungo nel paiolo.   
Quando infine Bedrich le si avvicinò con la cena in mano dovette sforzarsi parecchio per svegliarla, chiamandola e scotendo più volte la spalla. Negli ultimi giorni se ne stava a riposare molto più tempo, tanto che per ridere un giorno l’aveva canzonata che stava diventando oziosa. Gliene avesse almeno sorriso, macché. 



Che strazio quel pomeriggio, non aveva mai faticato tanto. Non era la terra ad essere dura e le forze non gli mancavano visto il pranzo che Mastro Peter gli aveva offerto prima che tornasse a casa. Dopo tanto tempo aveva mangiato addirittura un pezzo di carne e lo stomaco ancora gli gorgogliava felice per una simile cuccagna. Era solo quel lavoro ad essere penoso.
Quasi a ogni movimento di vanga l’occhio gli cadeva sul corpo della moglie. La buon’anima era avvolta nella stessa coperta di quando stava in casa, non per particolare sentimento, ma perché era l’unico sudario che aveva per accompagnarla nel sonno eterno. Per tener il cadavere al riparo dalle fiere, il povero Bedrich scavò una buca talmente profonda che quando risalì doveva puntar bene le mani sul bordo e arrampicarsi come a scavalcare un muro.
Prima di gettarla dentro recitò le poche preghiere che si ricordava, il prete purtroppo non si era disturbato di arrivare fin là senza una dovuta elargizione, e sperò con tutto il cuore che la sua invocazione potesse bastare a condurne l’anima in paradiso. Quindi rotolò piano il corpo fino alla fossa e ve lo lasciò scivolare senza osare di guardarlo. Fu sufficiente il tonfo sordo della caduta a fargli prendere la pala e cominciare a coprire i resti dell’infelice sposa.
Da allora per molto tempo Bedrich non tornò più nemmeno alla propria casa. La mattina andava da Mastro Peter lavorando fino alla chiusura, dopodiché si metteva a gironzolare per le strade o entrava in taverna per scambiare qualche chiacchiera con i clienti. Quando poteva scroccava da bere con chi aveva più confidenza e si era presto abituato agli schiamazzi degli ubriaconi da addormentarsi molte volte sui tavoli, dove passava l’intera notte, a meno che l’oste non fosse abbastanza attento da notarlo e lo buttasse fuori a calci. In tal caso l’unico riparo erano le case abbandonate, e avendo sempre di che accendere un fuocherello con i legni rubati dalla bottega non se ne lamentava più di tanto.
Un giorno però non andò al lavoro perché gli venne voglia di tornare alla sua vecchia casa, colpa di un sogno che aveva fatto la notte prima con sua moglie, suo padre e anche quell’odioso padrone. Quando rivide la casa si accontentò di restare ad una trentina di passi dalla soglia e non provò ad avvicinarsi di più, temendo che entro quelle mura vi fosse una specie di maledizione.
Sì, perché era da quando si era ammalata la moglie che aveva il sospetto del maleficio, rammentando le parole del padre sulla sventura che avrebbe attirato a lui e alla moglie con la loro fuga. Doveva accettare le cose come stavano, aveva aggiunto suo padre. Ma lui non poteva farlo, gli rispondeva, non poteva vedere di nuovo il padrone abusare di lei o lo avrebbe sgozzato come un maiale. E se un servo ammazza un padrone non ci mettono nulla a impiccare lui e a tutta la famiglia, ma se fuggivano tutti e due la colpa se la sarebbero presa solo loro e questa non poteva certo inseguirli in eterno. O forse si?
La sua mente ormai aveva partorito le idee più bizzarre, che il padrone aveva conosciuto una strega e gli aveva lanciato un sortilegio per vendicarsi dell’onta subita. E se lo spiegava col fatto che la loro felicità era durata appena il tempo di finire la casa e godersi il primo raccolto, prima dell’arrivo del freddo che aveva reso sterile il campo e fatto ammalare lei fino a farla morire.
Nella solitudine e nell’ozio iniziò anche a temere per sé stesso, al punto che quanto gli successe al lavoro poco tempo dopo gli suonò come una conferma della maledizione che stava per colpirlo. 


Era un giorno come gli altri, tranne che il padrone lo evitava più del solito. Sarà stanco, si disse Bedrich, con i fumi del vino a martellargli ancora la testa. Proprio per questo si preoccupò più di fare un buon lavoro, dopo che per due volte la sbornia aveva mal guidato la sua mano provocando più danni che bene. Per fortuna che Mastro Peter ebbe il buon cuore di perdonare quel povero diavolo diventato vedovo quasi nel fiore degli anni, forse ci si stava affezionando perché i due potevano essere tranquillamente padre e figlio.
Un figlio però già c’era, anche se era più giovane e più fannullone di quello adottato, e ovviamente Mastro Peter lo voleva avviare da tempo al mestiere di famiglia. Quando Bedrich era entrato lo aveva visto occuparsi di poca cosa, come prestare gli oggetti al genitore o andare a consegnare gli oggetti riparati. Ma da quando la buon’anima di sua moglie era salita in cielo, il servetto aveva già cominciato a farsi le ossa! Ora anche lui si metteva a segare legni e a montarli per costruire mobili e anche se l’arte non era buona come la loro, il padrone osservava soddisfatto i progressi del bottegaio di domani.
Bedrich cercava di tenersi buono il moccioso, sperando che dopo il ritiro del padre lo tenesse in negozio. Ma era vana precauzione, perché fu il vecchio a dargli lo smacco. A fine giornata lo chiamò per la prima volta per nome, facendolo sedere sul tavolo da lavoro e giungendo le mani sul banco con lo sguardo chino.
“Non posso più tenerti con me” disse senza guardarlo.
L’emozione fu così forte che a Bedrich mancarono le parole, ma non gli occhi pieni di rabbia verso quell’uomo. Mi guardasse almeno in faccia, si domandò furibondo, e sbatté una mano sul tavolo per costringerlo ad alzare il viso. Ma al padrone non mancava il coraggio e gonfiò subito il petto per dimostrare che raccoglieva la sua sfida.
“Perché mi stai cacciando? Non lavoro forse bene?” chiese allora Bedrich.
“Non è questo, sono gli affari a non andare bene e non ce la faccio a mantenere due aiutanti!” rispose Mastro Peter.
Bedrich rimase senza parole. Voleva tenere quell’idiota del figlio invece di lui che era tre volte più bravo? Neanche gli chiedesse un pollo al giorno per quanto si spaccava la schiena! Ma poteva parlare quanto voleva, tanto il vecchio aveva già deciso e gli aveva preparato un sacco di provviste che stando attenti ci poteva mangiare almeno una settimana. Un modo gentile per toglierselo di torno.
Non fece complimenti e salutò Mastro Peter passando per il paese in silenzio e con il sacchetto tenuto a spalla. Ma più si addentrava nelle campagne e più l’astio lo faceva ribollire e quando esplose iniziò a correre con la bocca che schiumava di rabbia, prendendo a calci i sassi, sollevando nuvole di polvere e fermandosi di botto per mettersi a pestare i piedi come un indemoniato. Che vada al diavolo lui e la sua pietà, pensò mentre tirò fuori il contenuto del sacco e lo gettò via con sommo disprezzo.  
Promise a sé stesso di non tornare mai più in quel dannato paese e avrebbe abbandonato anche la sua casa, dove c’erano ad attenderlo solo brutti ricordi e forse una maledizione. Se ne doveva andare da lì, non importa dove, ma lo avrebbe fatto quel giorno stesso.



I primi giorni del suo vagabondare Bedrich evitò con cura ogni villaggio o casa, vivendo da selvaggio con quello che trovava nei prati. Animali, frutti, per cacciarli aveva persino appuntito un bastone che scagliava a mo’ di lancia, ma quello che penetrava le carni non poteva certo tagliare anche il freddo della notte.
Non era inverno per fortuna, o senza un tetto sarebbe rimasto rigido in un giorno o due, eppure con il coltellino che aveva in borsa non poteva ricavar ciocchi da far durare il fuoco. Iniziò tosto a scatarrare e il petto gli bruciava neanche vi fosse una torcia. Sempre più esausto si trascinava lungo la strada, finché ad un certo punto la testa non gli girò così forte che cadde e non si ricordò più nulla fino al risveglio.
Si accorse di non essere più sotto un cielo nero pronto a scrosciare, stava invece in una stanza con gli occhi a mirar il soffitto. Era buio, forse sera, e se riusciva a veder qualcosa era per una candela che bruciava su una nicchia vicino al letto. Sentì un rumore e si girò verso un’apertura da cui danzavano delle ombre: non gli sembra una prigione perché la porta è spalancata, anzi non c’è proprio. Non capendo provò ad alzarsi, ma con il corpo tutto un dolore lanciò un grido che atterrì persino l’ombra che aveva intravisto.
“Figliolo, ti sei svegliato?” chiamò una voce che vide provenire dalla bocca di un prete.
“Dove mi trovo?” chiese Bedrich.
L’uomo gli spiegò che doveva ringraziare la bontà di un contadino che lo aveva trovato svenuto per strada, e preoccupatosi per la sorte di tale miserabile lo aveva portarlo in chiesa. Non era un mendicante, si affrettò a chiarire Bedrich, aggiungendo che era solo in fuga dalla maledizione dalla quale era perseguitando.
Il prete allora s’incuriosì e si sedette accanto a lui, stringendogli una mano e domandandogli perché avesse mai queste paure. All’inizio Bedrich fu riluttante, ma dopo tanti giorni di solitudine e di rabbia non gli pareva vero di sfogarsi con qualcuno, e cominciò subito a raccontare le sue sventure: la fuga dal padrone, la malattia della moglie, Mastro Peter, tutto quanto. Il prete ascoltava, senza interromperlo e annuendo con il capo o sospirando profondamente.
“Non devi temere questo destino, figliolo” disse finalmente “Perché ha tutto un senso”
“E quale sarebbe padre?” chiese lui.
“Tu hai mancato di rispetto alla tua famiglia e al tuo padrone” rispose “mancando così di rispetto anche all’ordine voluto da Dio. La perdita di tua moglie, per quanto luttuosa possa essere stata, ha tuttavia saldato il tuo debito con il Signore e sii grato di questo, figliolo, perché significa che Egli ha voluto darti una nuova possibilità di redenzione”
Bedrich restò confuso da simili discorsi, ma non era mica un religioso che si poteva mettere a discutere di disegni celesti e cose del genere. Ringraziò il suo ospite di averlo accolto, promettendo di levare il disturbo non appena avesse ritrovato le forze. Ma il prete rispose che poteva rimanere quanto desiderava, purché riflettesse bene su quanto gli aveva detto.
Ed egli rifletté davvero sull’esistenza o meno di questa possibilità di redenzione e agognò così tanto la risposta che finì per aggrapparsi a ciò che poteva essere tanto un segno di Dio o una pura follia. 



Non lontano dalla chiesa dove il buon Bedrich alloggiava c’era infatti un paese come quello che aveva abbandonato e non mancavano i fedeli che arrivavano fino alla chiesa per confidarsi con il prete. Ma oltre i peccati, raccontavano anche voci e accadimenti, di cui alcuni molto interessanti Pare, dicevano in molti, fosse arrivato un esercito che grazie a Dio non era ostile, anzi gli ufficiali si erano piazzati in mezzo alla strada perché cercavano uomini che si proponessero di combattere alla guerra.
Cosa poteva mai sentire lui che bramava una via più retta del suo triste passato. Ad ascoltare certe chiacchiere il cuore gli si accese come con una scintilla, e saltando giù dal letto si precipitò fuori a domandare di condurlo da questi soldati. Davanti a lui erano arrivati già altri tre volenterosi e uno stava pure litigando con quello al tavolo peggio di un cane rabbioso.   
“La paga è anticipata, mio buon amico!” ci teneva ad assicurarlo lo scrivano mostrandogli in faccia una bella moneta “E ben più, oltre alla gloria, vi sarà dato una volta a Mosca!”
Bedrich si mise dunque in fondo e toccò la spalla a quello davanti per sapere chi fossero i soldati, che guerra si combattesse, tutto quello che gli veniva in mente. Gli fu detto che si stava reclutando per Sua altezza re Sigismondo di Polonia e non si era sentito altro in giro, ma questo fu sufficiente a rendergli causa davvero giusta..
Che gl’importava di conoscere il resto, combattere per un Re era un motivo più che nobile, e stringendo i pugni nell’impazienza di menar le mani attese il suo turno fino al tavolo. Qui volle impressionare lo scrivano salutandolo con tono fiero e vanaglorioso, ma l’altro, stanco o forse indifferente a quelle pose, gli chiese solo nome e anche la sua specialità. Da impettito com’era Bedrich ne restò imbarazzato, perché non sapeva che rispondere non capendo in verità molto di armi e roba simile.
“Va bene, fanteria!” risolse allora lo scrivano “Mettiti in quel gruppo là”
E dopo avergli dato un paio di monete gli indicò alcuni giovani tenuti a vista da un soldato in piedi  pronto già a dar battaglia. Armatura, elmetto e una picca alta più di un uomo, tale imponenza lo lasciò ammirato e mentre aspettava il momento di partire s’immaginava anche lui armato fino ai denti ad affettar nemici per il suo re.
Uscirono in venti dal villaggio e nel seguire gli accompagnatori che li scortavano Bedrich si ricordò di aver salutato il prete che l’aveva ospitato. La nuova avventura gli aveva fatto scordare ogni cortesia e adesso era di nuovo solo, ma c’era chi tra i compagni si lasciava alle spalle ancora meno.   Non ci fu alcuni che si degnò a salutare chi se ne andava, dovevano essere tutti senza famiglia o amici a cui mancare. Deprimente nevvero, ma non c’era da rattristarsi più del dovuto, perché nel campo dei mercenari la solitudine era il minore dei loro problemi.
Nessuno di loro aveva mai visto tanta gente e bestie ammucchiate all’aperto e pure così che c’era una puzza molto peggio che in una stalla. Col fatto poi che i soldati stavano a parlare tutti assieme non si riusciva a capire quasi niente di quello che ti diceva un compagno, a meno di non avvicinarsi all’orecchio come si fa con i sordi. C’era da avere paura a vivere in questo modo e infatti parecchi dei nuovi si guardavano attorno   disturbati, tranne uno ed era Bedrich, che in quell’inferno vedeva l’anticamera di un'improbabile redenzione.





                                                     II

Che brutta vita quella del cavaliere se non v’è alcun coraggio da provare, quandonon c’è nemico da combattere a parte la noia oppur la fame. Ma il buon Bedrichnon ne sapeva niente di questo inconveniente e gli altri ridevano pure del suostupore, che ti credevi di finir subito la guerra, lo canzonavano, che fossesolo gloria e ancor più oro? Allora ne devi veder di cose, povero scemo,continuavano, e poi vedremo se avrai di nuovo tanta fretta.
Ecome succede sempre ogni volta che un gruppo trova chi pare più ingenuo, icompari iniziarono subito a punzecchiarlo e a fargli ripetuti dispetti pervedere fino a che punto la cosa potesse divertire. All’inizio Bedrich ne futurbato, perché era già difficile abituarsi a stare nell’accampamento, masiccome questi imbecilli per lui non avevan poi tanto valore smise presto dicurarsene.
Talesuperbia poteva costargli parecchio davanti a chi il buffone lo fa soprattutto perfregare, ma egli sapeva misurar bene quest’orgoglio perché da servo avevaimparato a non raccogliere le provocazioni e fece spesso buon viso alle lorotrovate. Prima o poi era convinto che si sarebbero stufati o avrebbero trovato qualcunopiù fesso da tormentare.
C’èda dire poi che di problemi ne aveva di molto più gravi, altro che stare adiscutere con quegli idioti! Tra la marce che non finivano mai, lo stomacovuoto e il chiasso continuo che lascia rimbambiti a fine giornata gli venivaaddirittura da rimpiangere il lavoro nel campo di casa sua. Tanto era duro chenella prima settimana non era mancato chi dei nuovi fosse già crollato dallastanchezza e nell’altrui indifferenza era rimasto per terra in agonia e senzanemmeno la pietà di una sepoltura.
Bedrichnon fu tra questi disgraziati, la testardaggine l’aveva lasciato in piedi evoleva dimostrare ai cretini dei suoi compagni che non era il pivello che sipensavano. Non era certo indifferente al proprio strazio, si era sciupato moltoe a vederlo non c’era da star così sicuri che arrivasse molto lontano, mavederlo ancora lì cocciuto a stringere i denti gli fece guadagnare un po’ dirispetto e gli attirò le prime amicizie con quelli che come lui erano arrivatida poco ed erano comunque sopravvissuti.
Unabenché magra consolazione visto che il suo calvario era ben lungi dal concludersie tantomeno aveva idea di dove fossero diretti. A dire il vero nessuno tra letruppe lo sapeva bene, tranne i capitani che avevano parlato di andare a combatteredei barbari del nord che indossavano pellicce e si nutrivano di quello chetrovavano nei boschi come i selvaggi. L’immagine aveva un che d’inquietante e moltitremavano al pensiero d’imbattersi in loro, poiché gli ricordavano le storieche anche Bedrich aveva sentito da piccolo: racconti che parlavano di genti acavallo venute da lontano, dei mostri pelosi e assetati di sangue che davanofuoco a ogni villaggio che incontravano e vi ammazzavano tutti quanti.
Bene,si disse eccitato il buon Bedrich, alquanto pare andrò a combattere il diavoloin persona! Ormai era diventato un vero fanatico, pronto a sacrificarsi per ilsuo Re e per il Signore che gli aveva dato una missione che più onorevole nonpoteva essere. Questo giustificava le fatiche, le rinunce, finanche lestronzate dei suoi compari, tutto serviva a prepararlo. La fame doveva averlofatto proprio impazzire o forse era una qualche febbre che si era preso per lefatiche e il freddo crescente. Eppure il diavolo lo vide davvero e quell’incontrolo deluse alquanto.





Da poco era passato mezzogiorno, con il sole in cielo che calava, mentre la truppa affamata non ne poteva più di quel cammino senza fine. Gli abiti eran sporchi, le suole consumate, persino la gola troppo secca per maledire la propria disgrazia. Anche Bedrich tentennava, perché non c’era uno che ne scampasse e tantomeno i capitani, ma d’un tratto la colonna si risveglia, è successo qualcosa.
Hanno trovato un villaggio lungo la strada, poche case ma traboccanti di rumori e suoni, della vita che quasi avevan dimenticato a forza di patir rinunce. Pareva un sogno quella gente che si dava un bel da fare, beati loro, si dicevano i soldati, ancor così pieni d’energie. Chissà quanto mangiano per essere tanto allegri, aggiunsero i più invidiosi, i loro piedi non gonfi certo come i nostri e il loro stomaco che non gli morde per quant’è vuoto. Siamo chiari, non avevano di fronte mica dei gran signori, ma per chi non ha niente anche il poco è ricchezza e se n’è comunque. Odiavano quella gente che stava meglio di loro.
Doveva finir male, era scritto così. Gli abitanti infatti s’incuriosirono di quell’armata di cenciosi e quando si piazzarono ad osservarli fra loro apparvero anche delle giovinette nel fiore degli anni che tolse ogni freno alla compagnia. A decine quindi sguainarono subito spade, lanciando ululati e schiumando bava peggio dei veri lupi.
La folla si disperse nel terrore, ma come pecore venivano acchiappati per esser sgozzati e lasciati tosto nudi dei loro averi. Chi non moriva, almeno per il momento, erano giusto le povere giovinette che in due o tre provavano a montare senza aspettar il loro turno, finché le infelici non soffocavano di cotanta violenza. Bedrich era confuso, non sapeva che fare, quasi rabbrividiva dell’abominio che aveva davanti. 
Una di queste povere vergini riuscì a liberarsi del tremendo abbraccio e sì trascinò qualche palmo di terra non lontano da lui guardandolo supplichevole. Egli provò titubante a piegarsi per aiutarla ma ella si ritrasse, anche se non per paura, bensì per vomitare sangue e qualche altra schifezza mentre un bruto la prendeva per ricominciare il suo trastullo. Anche i suoi amici partecipavano al saccheggio, chi violentava e chi usciva dalle case mordendo una pagnotta o cipolle.
“Che fai, idiota?” lo chiamò uno di loro con rimprovero “Vuoi morir di fame, per caso?”
Bedrich allora si avvicinò piano, guardandosi intorno, cercando dove potesse entrare per fare la sua parte. Molte case erano fracassate, i mercenari non avevano perso tempo e se non si sbrigava rischiava davvero di stare digiuno. Provò allora per una porta da cui sentiva meno rumori, forse qui c’era ancora di che mangiare, e vi trovò tre uomini chini su dei gran cestini che sparpagliavano cocci e altre cianfrusaglie. In un’altra casa c’era un compagno che non solo mangiava di gusto, ma stava pure sopra una povera donna dalle gambe spalancate e poco più in là vide steso forse il marito, la testa rotta ma ancora cosciente. Nell’agonia teneva gli occhi socchiusi, fissando la sposa e il suo onore ridotto a brandelli, ma ben più interessante era il ripiano sopra di lui con del cibo che poteva provare a togliergli di nascosto.
Ma quando si avvicinò sentì la caviglia stretta da una mano e per la vergogna non osò girarsi. Temeva quell’uomo, temeva il risentimento di quell’occhio, ma per sua fortuna le forze abbandonarono subito moribondo e Bedrich di corsa afferrò il maltolto e in un lampo fu all’uscita. Non volle veder più nulla, non voleva ascoltare quelle grida, chiedendosi se quello che aveva fatto lo rendesse solo un ladro affamato oppure un mostro come gli altri. 




Non tutte le fanciulle morirono in quel saccheggio, ma questo non era certo una fortuna migliore perché i soldati allora se le portavano dietro per renderle spose o innocuo passatempo. Alcune si adattavano in fretta, ma altre ne soffrivano ammalandosi lungo la strada e si trascinavano magre e pallide fino a crollare senza più fiato.

A peggiorar le cose da un pezzo non si vedevano più strade, mentre le pianure lasciavano il posto prima a terreni sassosi quindi a foreste alte, fitte e sterminate dove per giorni il sole faceva capolino solo dalle cime degli alberi. Da una parte era meglio perché si trovava più cacciagione, ma era scomodo dovendo stare tutti attaccati per non perdersi e scaldarsi la notte, che anche se era primavera continuava a essere inclemente e pullulava di fiere che con i loro continui richiami inquietavano non poco il sonno. 
Passarono molti giorni in mezzo a quegli alberi, lasciando segni o tagli sulle cortecce per capire se tornavano indietro e all'occorrenza cambiare direzione. E questo succedeva spesso, tanto che molti dicevano non si poteva proceder tentoni a quel modo e che ci voleva un esploratore. Alla trovarono lo trovarono pure, peccato che fosse un tipo che quando parlava non si capiva bene e per guidarli doveva gesticolare come ai bambini, ma a loro andava bene purché si uscisse da quel labirinto.

Il buon Bedrich incuriosito da come l'esploratore si orientava e si avvicinò per conoscerlo, scoprendo che non era muto o deficiente, ma solo un tedesco di nome Ulrich che non aveva mai voluto imparare il polacco, tanto non gli andava di parlare molto col suo caratteraccio che per poco gli era costato anche la forca. Era per quello spiegò che si era fatto soldato, e a Bedrich non parve strano visto il triste spettacolo dato dai compagni a quel villaggio, e poi non gli dava impressione di esser cattivo e proseguì ad imitarlo, chiedendo   perché scegliesse questo percorso e non l’altro o si metteva alla prova a suggerendo per primo dove andare.

La sera per passar il tempo i soldati si raccontavano storie e anche voci sulla guerra che andavano a combattere, così che Bedrich prendendo le parti che si somigliavano ne ricavò un’idea che fosse più attendibile. Si diceva che questi barbari fossero da anni senza un capo e i baroni lasciati sciolti avevano iniziato ad ammazzarsi tra loro con l’inganno o il tradimento. Tutti concordavano che fossero ignobili e non si erano crucciati di offendere un re come Sigismondo, che prima gli aveva mandato una guarnigione in soccorso e poi i cittadini ingrati si rivoltarono pure contro quella. Il loro compito era proprio di salvare i soldati dai moscoviti, ma in molti non credevano tanto di arrivare in tempo o di arrivare soltanto invece di perder traccia in Tataria o giù di lì.

Un giorno finalmente i soldati uscirono allo scoperto e alla vista di nuove e immense praterie urlarono di gioia e si sparpagliarono come uccelli che vengono liberati dalle gabbie. I capitani si dettero un bel da fare a ordinargli di non fare tanto chiasso o di serrare nuovamente la colonna, ma nessuno gli dava retta e alla fine sapendo di non essere ancora in terra nemica li lasciarono sfogare com’era giusto che fosse, riprendendoli più tardi con le buone o le minacce. 

La prudenza non era mai troppa e un mattino infatti mentre fiancheggiavano un bosco si trovarono una grande ombra a bloccargli la strada che meravigliò il capitano: o i suoi calcoli erano sbagliati o quella era un’incursione bella e buona. Ma non c’era tempo per capacitarsene, che quegli sconosciuti in un baleno montarono in sella e li caricarono con le lance sguainate. E al povero Bedrich, per la paura, mancava la forza di stringer la picca che aveva in mano. 





Il gruppo dei barbari si avvicinava sollevando dietro un polverone gonfio come un cielo in tempesta, gli zoccoli scrosciavano peggio di una scarica di tuoni, facendo tremare la terra sotto i piedi dei malcapitati che li aspettavano. Quale effetto doveva avere tutto ciò sui loro deboli cuori, poiché nessuno tra loro era soldato di lunga carriera, e fu incredibile che fino all’ultimo non si dispersero a gambe levate finendo trucidati come lepri in una battuta di caccia.
E fu terribile lo stesso quando i primi nemici si scaraventarono contro l’avanguardia, con le picche che rompendosi scagliavano schegge da tutte le parti e i cavalli imbizzarriti che si ribaltavano schiacciando più di una persona. Per un soffio anche il povero Bedrich rischiò di venir travolto, saltando indietro terrorizzato dalla zampata che gli mancò di poco la spalla e senza neppure l’attimo per riprender fiato che già incalzava un secondo cavaliere arrivato ancora in sella dalla sua destra.
Provò a rispondere allungando verso di lui la picca, ma purtroppo si ruppe e lo fece balzare per terra dove rimase stordito mentre la confusione intorno pareva soffocarlo. Non sapeva se lo aveva colpito, vide soltanto che un paio di moscoviti erano impegnati a far fettine dei compagni che gli stavano proprio davanti e conscio del pericolo che avanzava mosse la mano verso la spada, scoprendo con suo orrore che gli tremava più di una foglia sotto vento.
“Vergine santa! Non mi muovo” balbettò trascinandosi indietro ancora seduto.
Incurante del suo tentennare il cavaliere provò a lanciar un affondo schivato all’ultimo, quando finalmente l’istinto gli fece prender la spada per roteargliela davanti nella speranza di tenerlo lontano. Per un momento l’avversario s’irrigidì e lo fissava aspettando qualche altra sua mossa, quindi attaccò con maggior impeto finché Bedrich non cadde perdendo pure la spada.
Per sua fortuna venne qualcuno più leone di lui pronti che afferrò la gamba del cavaliere e gli ruppe il collo che neanche si era accorto di venir disarcionato. E il cavallo rimasto libero fu montato da uno che però non era avvezzo a cavalcature e venne subito gettato chissà dove, visto che Bedrich si preoccupò più a non finir schiacciato da quella bestia che sbuffava furibonda. L’agitazione era salita tale che non ci stava capendo più nulla, faticava a respirare e non aveva più idea di cosa fare.
I cavalieri in mezzo alle file intanto aumentavano di numero e facevano arretrare molti di chi non voleva rimaner circondato, preferendo  accalcarsi tutti stretti come a fuggire la marea che si alza. Davanti a loro erano rimasti appena una decina di coraggiosi che per il soverchiare del nemico caddero come erba tagliata da un falcetto.
“Che state facendo?! Attaccate!” si sgolavano i capitani vedendoli immobili sul campo ormai sgombero tra loro e il nemico.
Ma nessuno osò far nulla, anzi Bedrich che si stava poggiando sui compagni improvvisamente si sentì mancar il sostegno perché quelli avevano voltato le spalle al nemico per risolversi alla fuga. Egli quindi si girò un’altra volta dai cavalieri e cacciando un urlo prese a correre anche lui, sforzandosi di non cedere alla paura che lo poteva far inciampare e dar gioco facile agli inseguitori. Non osava voltarsi indietro, accertarsi che fossero a un passo su di lui, ma sentiva ancora le voci dei capitani che incitavano la truppa, o forse erano urla di terrore perché anche loro se la davano a gambe levate. Improvvisamente sentì il rumore degli zoccoli ricominciare, segno che i barbari avevano iniziato la loro caccia vittoriosa. Il cuore gli batteva forte, temeva davvero per la sua vita.




Il terrore si era impadronito di tutti i soldati, che correvano a perdifiato e se cadevano si trascinavano come gli infanti, piagnucolando e a gattoni, o in silenzio a guisa delle bestie. E intanto i nemici, forse divertiti da quello spettacolo di codardia, spronavano i loro destrieri e giunti al cospetto di uno dei fuggiaschi lo infilzavano prima con la lancia e schiacciavan quel che restava con tutto il peso in uno schianto di ossa rotte.
Bedrich, ch’era assai veloce nella corsa e aveva già superato alcune file, vide giusto con la coda dell’occhio il destino dell’altrui sfortuna. Quelle urla, il rumore così raccapricciante della carne che muore quasi gli davan le ali ai piedi, ma il fiato non poteva durar per sempre, soprattutto contro chi è a cavallo e in un salto si lascia dietro quel che lui percorre solo in dieci.
Non ne sarebbe uscito vivo uno, questo era certo, e l’avventura del buon Bedrich sarebbe già giunta a termine se il buon Dio non avesse deciso diversamente. Non fu proprio il miracolo che lo salvò dal colpo di grazia, ma sentiva di essere a buon punto di venir raggiunto quando vide che alcuni compagni davanti a lui si erano fermati. Sono pazzi, si disse, ma se massacrano loro posso avere più possibilità, poi l’istinto lo fece girare e vide i cavalieri rimasti indietro a guardare altrove e tra loro, incerti su come proseguire. Perché si son fermati, si domandò.
“I cosacchi! Sono i cosacchi!” parve rispondergli qualcuno indicando a sinistra.
Si voltò che i rinforzi erano già intenti a infilare le loro lance nei toraci dei barbari o sparando con gli archibugi che i più abili sapevano usare ancora in sella. Coloro che poco prima li rincorrevano arroganti stavano ora ripiegando in fretta e furia verso nord, trovando con orrore altri nemici pronti ad accerchiarli e colti dal panico non poterono che subire il proprio massacro. Solo una dozzina riuscì a scamparla, più con disonore ovvero dando spallate ai compagni e spingendoli contro i nemici a fare da scudo per la loro rotta. Presero la strada dei boschi, ma forse nessuno dei superstiti  se ne curava presi com’erano dalla gratitudine per l’insperato salvatore.
In realtà, dopo che gli ufficiali avevano chiarito di essere servitori come loro del Sigismondo, i cosacchi spiegarono di non essere venuti per soccorrere un’armata di straccioni, e ci mancherebbe, ma stavano inseguendo quei moscoviti dopo una scaramuccia di due giorni innanzi col timore potessero andar a caccia di rinforzi. Che inaspettata fortuna che sulla loro strada avessero trovato dei soldati appiedati, che per poco non facevano tutti secchi, o non li avrebbero mai raggiunti. A sentir questo nella compagnia non c’era di che esser lusingati, anzi se non gli toccava di assolvere a un tale favore poteva esser anche meglio, ma di casualità la guerra è fin troppo piena e per i vivi in fondo ciò che conta era aver sempre la testa sul collo.
Contraccambiando il servizio che gli avevan reso i cosacchi si offrirono di scortarli al campo più vicino e promisero anche di mettere una buona parola per trovargli lavoro e se possibile anche un nuovo equipaggiamento da soldato che si rispetti. Il cordone che ripartì si divise in tre colonne: ai lati i cavalieri e in mezzo a malapena quaranta della compagnia del Bedrich, il quale fissava ammirato quei gran soldati e la vista gli faceva un gran male ricordando che vigliacco era stato.
Lui che s’era fatto soldato per onorare il Sigismondo, ed era scappato mancando poco che gli rompessero il collo come la più volgare delle galline. Da allora avrebbe mantenuto un maggior contegno, soprattutto nella fuga. Una volta poteva andar bene, quasi sempre il contrario, e se lo sapeva tanto valeva cambiar atteggiamento oppure gettarlo nel primo dirupo che incontravano.





Da quello che si venne a sapere la buona parola dei cosacchi gli era valso un incarico semplice nonché allettante, trattandosi di unirsi ad un assedio sul punto di essere vinto e il guadagno per questo poteva arrivare senza colpo ferire. Ovviamente non potevano andarci malridotti com’erano e gli furon disposte nel limite del possibile nuove armi e vestiti, anche se la maggior parte si dovette accontentare di una veloce rammenda e una risciacquata e finiti i convenevoli ripartirono alla volta della futura conquista.
Non dovettero marciare a lungo, tanto che in un solo giorno udirono il rumore di cannoni nascosti ancora dall’orizzione e il mattino seguente avvistarono finalmente il campo del Sigismondo. L’esercito reale stava cingendo da ogni lato una città grigia, quasi muta, come una donna offesa da una lunga e spiacevole intrusione. E le sue mura spesse quanto montagne o i torrioni disseminati ad ogni angolo la facevano apparire una preda affatto sprovveduta.
“Quella è Smolensk, uomini!” gliela presentò solenne il comandante “Forse la città più solida di tutte le Russie! Che il cielo ci assista!”
Passarono per campi divorati da gramigne e villaggi in parte abbandonati e distrutti nei primi saccheggi, in parte occupati dai nobili, ufficiali e magazzinieri che avevano il privilegio di un tetto. Attraversarono dunque l’immensa distesa di tende che formava il resto del campo, finché giunti all’altro capo si avvidero che ne mancava di strada per Smolensk, dovendo scavalcare prima le mura costruite a riparo dei cannoni che forse eran quelli ascoltati il giorno prima, poi superare un’ultima vallata tagliata da trincee che lambivano il fossato e le mura. In queste gallerie il buon Bedrich notò subito che il via vai di gente che a forza di scavare potevano già tirare coi loro fucili contro i barbari che osavano affacciarsi sulle mura e neanche a farlo apposta ne vide uno che dopo il colpo perse l’equilibrio e cadde al di qua della barricata.
Durante il viaggio fino a Smolensk la compagnia era stata accompagnata da tre cosacchi che l’introdusse ad un quarto della stessa razza già di stanza nell’assedio, il quale non mostrò un sincero entusiasmo per la marmaglia che gli si offriva ma accettò comunque di farsene carico. Fu chiaro fin dall’inizio, questo sì, e spiegò che siccome alla città servivano davvero pochi giorni per cadere al momento non aveva particolare necessità del loro aiuto e l’unica cosa che li pregava di fare era di trovarsi un angolo dove star buoni ad aspettare una chiamata per l’assalto finale che si stava preparando all’insaputa degli assediati.
Trascorse qualche altro giorno durante i quali Bedrich e i suoi compagni si diedero più all’ozio che al guerreggiare. Passavano il tempo giocare a dadi o carte con gli altri soldati, facendo amicizia e trovando così modo di bere e mangiare insieme al calar del sole. Dopo aver preso confidenza i più arditi non disdegnarono allora di cominciar a ronzare attorno le vivandiere che a volte ci stavano volentieri, ma altre più scorbutiche si alteravano e chiamavano subito i propri spasimanti che in un baleno tiravan calci e s’accapigliavano col rivale.
Bedrich talora partecipava a questi svaghi, in altri momenti si dilettava invece a guardare la città ignara dell’imminente fine, che poi nemmeno lui sapeva quando sarebbe arrivata. Per di più a vedere quelle mura che i cannoni non avevan scalfito in due anni di offesa e i soldati dalle trincee con non certo miglior speranza di oltrepassarle dubitava persino di ciò che aveva detto il nuovo capitano. In realtà, e questo a sua insaputa, la vera battaglia si stava combattendo in tutt’altro luogo.






Gli assedi sono faccende assai imprevedibili perché capita di restar inerti mesi interi, quando giunge d’improvviso il cambiamento che rovescia la situazione e non se ne intenda la ragione. Tale fu il destino di Smolensk che in un caldo giorno d’estate iniziò a tuonare come se un temporale si fosse abbattuto a ciel sereno con tale potenza da far tremare la terra sotto i piedi. .
Nel mentre Bedrich si era addormentato da un’ora o poco più, quando il gran rumore non lo rigirò di scatto e riprendendo i sensi vide una folla che correva agitata verso la fortezza. Sussultò per una nuova esplosione e riaprendo ancora gli occhi scorse un fumo nero e rigonfio arrampicarsi lento nel cielo. Raggiunti i compagni osservò una scena che non credeva ai suoi occhi: quelle mura che aveva paragonato alle montagne si eran sbriciolate in un lato della città e avevano aperto uno squarcio largo quanto bastava per far passare un reggimento.
“Hanno aperto una breccia! La città è nostra!” esultarono in molti vicino a lui, parlando di mine e di scavatori che dovevano essere arrivati lì sotto assieme a un bel carico di polvere.
Finalmente, pensò ad ogni modo il buon Bedrich, questa è l’occasione di riscattar il mio valore. In men che non si dica prese allora le armi e corse dal capitano che aveva già iniziato a formar lo squadrone e a discutere con gli altri ufficiali su chi sarebbe entrato per primo. O meglio ci bisticciava essendo difficile trovar soddisfazione sul posto assegnato: troppo presto si rischia di venir falciati, troppo tardi e non si trova più nulla.
Quando lo truppe iniziarono a farsi strada tra le trincee, le macerie erano si stavano liberando dalla cappa di fumo del crollo che nascondeva chissà quali insidie e pericoli. Una bestia dopotutto pur se ferita è capace di colpire e i soldati lo sapevano tanto che già puntavano i loro moschetti ora che si intravedeva meglio. D’un tratto però un cannone amico provò a colpire in mezzo alla coltre, ma la palla era mal diretta e si schiantò su di un muro che vomitò dei pezzi con gran fracasso e alzò un nuovo polverone che non fece vedere più niente. Gli uomini perciò si bloccarono e persino i generali esitarono a proseguire.
“Ma dove tirano quegl’imbecilli?!” s’indispettì un capitano dietro alla compagnia dove stava il Bedrich.
Questi guardava in silenzio la polvere appena sollevata dai detriti, i compagni preoccupati, le mura che si avvicinavano e il fumo nella breccia attraversato dalla scarica di lampi dei difensori che spararono. Chi non morì al primo attacco rispose col suo moschetto alla cieca, perché era davvero impossibile distinguere chi fosse appostato nel passaggio e invece di farsi bersagliare da un nemico fantasma i soldati preferirono avanzare nel buio e stanare i tiratori.
Una colonna di fucilieri si arrampicò da destra, mentre gli altri con lance e spade seguivano a passo più veloce e vennero inghiottiti nella coltre come un sasso buttato al mare. Quando fu il turno della sua compagnia l’intrepido Bedrich udiva soltanto le grida e lo sferragliare delle armi, qualche volta anche gli spari, e purtroppo non accennava a schiarire neppure salendo sulle prime rocce su cui poggiava con la sinistra la picca e la destra reggeva la spada in caso di brutte sorprese.
Calpestò senza volerlo i corpi schiacciati dall’esplosione e di chi era morto poco prima o stava a buon punto se nel toccarlo continuava a gemere. Per colpa dell’aria pesante si respirava a fatica e sudava parecchio, anche se grazie al cielo arrivò presto al di là delle rovine dove la nebbia si aprì con uno squarcio mostrando la città nuda ai loro occhi.





Scese di corsa fino alle strade con l’arma in pugno e gridando a pieni polmoni rinfrancato dai compagni che stavano appresso e dai barbari che vedeva ritirarsi dietro le case come cani bastonati. Ne stava puntando uno che vedeva lento e impacciato, niente di meglio per cominciare a lavarsi l’onta della codardia pensò, ma quando il grassone scomparve dietro un angolo il buon Bedrich trovò ad attenderlo un avversario molto più ostico.  
Non era lo stesso che inseguiva, che forse si era già nascosto in qualche buco lì vicino o aveva chiamato rinforzo, tant’è che si trovò un’ascia roteargli davanti al collo, mancandolo solo perché la paura lo aveva arrestato ad un soffio dal filo. Questa volta Bedrich non cadde né abbandonò la presa della spada, gettando via persino la picca alla maniera di chi si libera d’impacci per affrontar meglio il nuovo avversario. La scure nel frattempo lo attaccò ancora e ancora Bedrich schivò il colpo, ma l’ansia era tornata a piegarlo e non osò contrattaccare. Il barbaro quindi, vedendolo così rigido, provò a spaccargli la testa in due come una noce, ma la sicurezza gli fece scagliare un colpo troppo forte che perse l’equilibrio e scivolò in avanti come il frutto che doveva spaccare.
Bedrich fu consapevole che non poteva sfidare in eterno la fortuna, quindi fece un salto e finì dietro l’avversario e gli affondò la spada nel dorso, premendovi bene anche il piede per lasciarlo inchiodato a terra fino all’ultimo spasmo. Quello furibondo sputava sangue e lo insultava in parole talora comprensibili, ma non ebbe il tempo di intender meglio che un altro soldato gli stava venendo incontro con la picca allungata.
“Maledizione!” gridò d’istinto Bedrich deviando la punta con la spada, mentre l’altro si fermava guardandolo perplesso.
“Ah, sei polacco!” rispose dispiaciuto “Chiedo scusa!”
Voleva prenderlo a schiaffi, ma pensando che pure lui all’inizio lo aveva creduto ostile non volle dar troppa pena alla cosa. Del resto, si disse, a parte quando si sta nella compagnia è difficile riconoscere gli amici dai nemici, figuriamoci in mezzo alla confusione. Per rendersi la vita più facile si accordarono a proseguire insieme e il compare rubò l’ascia al morto dicendo che con quella avrebbe spaccato le porte delle case che avrebbero saccheggiato.
Scovare case ancora intatte si rivelò però più difficile e più si avvicinavano al centro, più le guardie aumentavano perché chi fuggiva all’inizio in realtà andava a raggrupparsi per fare muro contro gli assedianti che la sete di bottino aveva sparpagliato come mosche. Bedrich e il suo nuovo amico se ne accorsero perché incontrarono un gruppo fermo sulla strada, i quali gli fecero cenno di non proseguire e gli indicarono una fila di nemici più oltre che bloccavano la via con scudi e le lance pronte a infilzare chiunque si avvicinasse.
“Dobbiamo cambiare strada” suggerì uno di questi compagni “O aspettare rinforzi!”
Stavano discutendo sul da farsi quando un gran botto fece tremare le case e paralizzò tutti, compresi i barbari che scioccati ruppero le righe e si misero a fissare il gran fumo nero che stava nascendo da qualche parte nella città e zampillava ancora scintille. Ma il fumo non interessava altrettanto Bedrich e i suoi compagni, che anzi approfittarono di quella distrazione per corrergli addosso e travolgerli fin quando potevano godere del vantaggio. I primi colti alla sprovvista caddero all’istante e neppure gli altri, più consapevoli, poterono nulla contro l’impeto di chi si sentiva ormai vincitore. Con la via sgombra il saccheggio poteva finalmente iniziare.






Al mercenario con il soldo in mano poco importa dell’impresa o della missione, che per lui è solo vaga ragione tra l’una e l’altra rapina che compie. Lo sanno bene i comandanti e un po’ li capiscono perché gli uomini ne hanno in quel mentre di privazioni da soffrire e lasciano allora che si sollazzano, che tanto prima o poi la fame e la brama di carne li spingono a raccoglier di nuovo le armi.
Qualcuno era contrariato già con le tasche piene, come il buon Bedrich che il guerreggiare da valoroso aveva troppo eccitato e sentiva adesso tedioso lo stare in città senza far nulla. Di marcire nelle bettole non se ne parlava, né di girar per strada a maltrattar gli abitanti come banditi che spesso arrivano a picchiarsi tra loro e la preda nel frattempo se ne fugge via tranquilla. Erano però abitudini diffuse tra i compagni e l’evitarle finiva per lasciarlo solo e il pericolo d’impazzire era grande, se non si fosse imbattuto in un piacevole passatempo.
Passeggiando vicino le mura in rovina ritrovò un gruppo di cosacchi, di quelli che aveva tanto ammirato prima di venire a Smolensk e che diversamente dagli altri soldati se ne stavano per conto loro. Non solo, ma invece di bere o poltrire si esercitavano con i cavalli, dei veri guerrieri, pensò il buon Bedrich, che ne rimirava la bravura a bocca aperta e tornava giorno dopo giorno ad assetarsi nello spettacolo della gloria che tardava.
Pur adorandoli il Bedrich se ne stava in disparte, avendo paura di disturbarli e di venir per questo scacciato, anche se i cosacchi avendo imparato a riconoscerlo e capito che era innocuo una mattina lo avvicinarono e cercando, male, di parlar polacco gli chiesero la ragione di cotanto interesse. Forse neppure Bedrich si fece capire a parole, ma il suo viso pieno d’entusiasmo disse molto più di ciò che intendeva e quelli sorridendo tra loro se ne andarono da dove eran venuti.
“Montare?” gli domandarono l’indomani gli stessi cavalieri con sua meraviglia.
“Non sono capace!” esclamò Bedrich scuotendo la testa con gli occhi che però tradivano gioia immensa. Un cosacco dagli occhi come il cielo gli diede allora una pacca sulla spalla, poi salì sopra e gli tese la mano per invitarlo a mettersi in groppa dietro a lui.
In men che non si dica i due erano già al galoppo sui campi con il vento che gli sferzava il viso e il corpo era scosso con violenza dalla corsa. Al principio ebbe paura di cadere e si tenne stretto al torace di chi guidava, abituandosi solo verso la fine e dispiacendosi di non aver avuto il tempo di goder appieno della cosa.
“Ancora! Ancora!” ripeté a squarciagola e aggrappandosi al dorso del cavallo per suggerire di non voler scendere. Il cosacco lo guardò severo e alzò un braccio che sembrò preparar un colpo per farlo cadere con la forza, dando però un colpo che li fece ripartire più veloci di prima. Bedrich prese a gridare, non di terrore come si potrebbe pensare, ma esultante, fiero e se avesse avuto la lancia in mano non avrebbe sfigurato come cavaliere alla carica. Pure il cosacco ne fu colpito e dovette strattonarlo non poco per buttarlo giù quando si era rifiutato di nuovo di smontare.
“Fatemi imparare, vi prego!” li supplicava rialzandosi “Fatemi imparare a cavalcare!”
“Non capire tu che dire!” rispose il cosacco dagli occhi chiari portandosi via l’animale e ridendo di gusto assieme ai due compagni che lo avevano atteso. 





Il denaro finì assieme alla bella stagione e sapendo del freddo crudele da quelle parti le truppe non ebbero premura di andarsene e si arrangiarono a tirare avanti come potevano. Chi ci andò di mezzo furono sempre gli abitanti, che tra il lungo assedio, il saccheggio e l’occupazione pativano già non poca miseria e se al momento di pagare tributo non c’era proprio niente da dare, sotto con calci e bastonate, fino a lasciarci la pelle.
E non era tutto perché man mano che s’inoltrava l’autunno i mercenari divennero insofferenti alle tende, chiedendosi come mai dovessero battere i denti all’addiaccio alle porte di una città tanto grande. Un bel giorno allora si radunarono in gruppi di quattro o cinque a bussar alle porte e appena la gente gli apriva buttavano fuori l’intera famiglia per viverci al posto loro. Le strade si riempirono subito di decine di questi sfrattati e i soldati non li lasciavano stare neppure nella disgrazia, perché si divertivano a farli azzuffare per poche briciole e poi scommettere sul vincitore di questa lotta tra pezzenti.
Ai capitani la scena non dispiaceva, ma era diverso se fosse passato un ufficiale importante, di quelli che danno più importanza all’ordine e non si preoccupano minimamente del tedio di un fante. Ma doveva esserne capitato uno ad assistere per caso, tanto che durante l’ennesima zuffa comparve uno squadrone di guardie armate che arrestarono i mendicanti e un pugno di soldati di cui non si seppe più nulla. Si disse che vennero giustiziati o abbandonati lontano dalle mura, qualunque fosse stata la loro fine bastava il sospetto a spaventare gli altri.
La punizione finì per toccarli ugualmente e i più malfidati, o i più scaltri chissà, videro nella rappresaglia un pretesto per rispondere agli appelli dalle guarnigioni del Sigismondo nella Moscovia. Si diceva che vi fosse disperato bisogno di rinforzi e i comandanti a Smolensk pensarono bene di mandare i più indisciplinati a distrarre il nemico prima della primavera e di giornate più clementi.
Tra i fortunati c’era anche la compagnia del buon Bedrich, che fu quasi allietato di lasciare finalmente quel posto che l’annoiava. I compagni al contrario s’infuriarono e confermarono la cattiva impressione che si erano guadagnati venendo quasi alle mani con chi gli aveva recato i nuovi ordini, che una volta tornato dal comandante si vendicò facendo giustiziare chi l’aveva offeso in modo più pesante.
Partirono il giorno seguente e il tempo non era nemmeno male. La neve al suolo e il cielo nuvoloso si fondevano in un candore piacevole a vedersi e l’aria non soffiava così forte da infiammare il respiro. Il viaggio tuttavia si prospettava molto lungo, una settimana e forse più, e i capitani siccome era una bella giornata vollero guadagnare tempo facendo marciare gli uomini tutto il giorno. Al tramonto si accamparono esausti in cima ad una collina, dove cominciarono subito a tagliar legna da ardere perché le scorte bastavano appena per tre giorni e con quello che era rimasto in città non si poteva avere di più.
In molti purtroppo il peso di settimane a non far nulla si fece presto sentire. Il corpo aveva perso la tempra per reggere lunghi sforzi o delle notti che non perdonavano. Tantomeno la neve che non aspettò molto prima di ricadere su quegli sventurati, fino a quando con i vestiti troppo zuppi e le gambe a pezzi i soldati dovevano per forza interrompere la marcia o per la stanchezza i fiocchi avrebbero finito per sommergerli.



Un giorno guardando oltre il vento macchiato dalla neve comparve un’ombra che i soldati crederono prima una roccia o degli alberi, finché nel proseguire non la videro allungarsi come un lungo serpente che trascinava pesante la testa verso di loro. Siccome la vista era assai annebbiata e i sensi non meno intorpiditi in molti ebbero tema di aver incrociato una mostruosità pronta a farsene boccone e strinsero le armi preparandosi al peggio.
“Sono persone!” gridò però d’un tratto qualcuno e il buon Bedrich non perse tempo ad aguzzare gli occhi riconoscendo davvero degli altri uomini. Ma il sollievo durò poco perché non gli sconosciuti  sembravano essere in gran numero e dal passo troppo pesante non erano certo dei viandanti o pellegrini in un cammino di penitenza.
D’istinto dunque egli alzò di nuovo la lancia, fissando quei figuri teso come una corda e trattenendo il respiro quando si fermarono a pochi passi dalla compagnia e gridarono qualcosa presto soffocato dal vento. I comandanti allora per meglio intendere vollero avvicinarli facendo arrestare la truppa, dove ognuno non potendo più scaldarsi camminando non poteva far altro che battere le braccia sul corpo o strofinare quel che restava delle pellicce divorate dalle intemperie. 
“Ma chi sono quelli là?” era la domanda che saltava da una parte all’altra tra gli uomini “Devono mettersi a chiacchierare proprio in mezzo alla bufera?!”
“All’armi!” ordinò di colpo il comandante che fu il primo a cadere per mano degli sconosciuti. Dalle loro parti si levò quindi un grido minaccioso e accorsero con le spade già sguainate non lasciando più dubbi sulle loro intenzioni.
La battaglia fu difficile e straziante, poiché i compagni del Bedrich e lui stesso erano provati dalle fatiche trascorse e non riuscivano a maneggiare come si deve le proprie armi, mentre i nemici dimostrarono di sapersi battere meglio nonostante la durezza della stagione. Furono loro alla fine a prevalere uccidendo venti o trenta mercenari, ma per qualche strana ragione piuttosto che passare al filo i vinti preferirono farli prigionieri. Unica eccezione furono i capitani che vennero accompagnati in disparte e scomparvero nella nebbia senza far più ritorno.
Il gruppo ripartì poco dopo e per il buon Bedrich ch’era sfinito dalla battaglia riprendere a camminare fu impresa ben più ardua. Teneva le braccia penzoloni, il respiro aveva il sapore del fuoco e che triste spettacolo vedere chi era meno coriaceo lasciarsi cadere per venire in un lampo inghiottito dalla neve a terra. Questo non a me, implorava a se stesso, sforzandosi di andare avanti con le ultime energie e per questo vedeva solo i suoi piedi, non distinguendo più gli amici dai nemici. Attorno a lui c’era solo una fila di corpi chini e tetri come l’inverno che li avviluppava e seguendoli almeno aveva la consolazione che la morte se fosse arrivata non l’avrebbe affrontata da solo.
Quando poi verso sera le correnti si calmarono e lo sguardo si fece più nitido, il buon Bedrich scoprì ciò che non si sarebbe mai aspettato. Pur nel delirio della stanchezza si era fatto un’idea su chi li aveva catturati, non potevano che essere dei barbari venuti a tagliargli la strada per la Moscovia. E allora perché non indossavano i loro elmi a punta e parlavano la favella del Sigismondo come se fosse la propria? Non solo, ma avevan smesso di tormentare i suoi compagni e iniziavano a rider di gusto con loro come se non vi fosse mai stata battaglia. Chi diavolo erano allora questi soldati? 


(to be continued....)


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