lunedì 7 gennaio 2013

Lo Hobbit: l'artificiosità deludente dei 48 fotogrammi al secondo

Perfezione e passione, realtà e sogno, concretezza, finzione, realismo e immaginazione..cos'è il cinema? 
10 anni dopo una trilogia capolavoro come quella del Signore degli Anelli eccoci di nuovo nella Terra di Mezzo a valutare Lo Hobbit-Un viaggio inaspettato; un miracolo filmico, quello del passato, che purtroppo non è riuscito a ripetersi, scopriamo il perchè...


Peter Jakson non molto tempo prima dell'uscita del film dichiarava: "Stiamo effettivamente girando a un frame rate maggiore. (La frequenza dei fotogrammi, in molti contesti riportato in inglese frame rate, è la frequenza di cattura o riproduzione dei fotogrammi che compongono un filmato. Un filmato, o un'animazione al computer, è infatti una sequenza di immagini riprodotte ad una velocità sufficientemente alta da fornire, all'occhio umano, l'illusione del movimento. La frequenza dei fotogrammi viene misurata in hertz (Hz), nei monitor a scansione progressiva, oppure espresso in termini di fotogrammi per secondo fps). La cosa importante da capire è che questo procedimento implica girare e proiettare a 48 fps, piuttosto che i tradizionali 24 fps (i film sono stati girati a 24 fotogrammi al secondo sin dalla fine degli anni venti del secolo scorso. Quindi il risultato è comunque a velocità normale, ma l’immagine migliora enormemente in chiarezza e nitidezza. Guardare a 24 fps può sembrare normale – e abbiamo visto tutti i film in questo modo negli ultimi 90 anni – ma spesso c’è molta sfocatura in ciascun fotogramma, durante i movimenti veloci, e se la cinepresa si muove in giro rapidamente l’immagine potrebbe sfarfallare (effetto stroboscopico)".


Perchè questo estratto sulla tecnica dei 48 fps al secondo? Per un motivo molto semplice: questo procedimento ha di fatto "rovinato" parzialmente la pellicola. 
Sin dalle origini il cinema si è costruito sul metodo della riproduzione del reale, costituito di cose e persone, innescando una duplicazione dei fenomeni dell'universo fisico: questa dimensione però è raccontata attraverso sovrimpressioni, movimenti rallentati o accelerati, angolazioni particolari o carrellate improvvise che hanno poco in comune con la realtà e hanno contribuito alla costruzione di un onirico, di una dimensione che tutti sappiamo essere finzionale.
Insomma il film è una convenzione con lo spettatore: se non rispettata, rischierebbe di intaccare la famosa quarta parete (fa parte della sospensione del dubbio esistente tra un'opera di finzione e lo spettatore. Il pubblico di solito accetta implicitamente la quarta parete senza tenerla direttamente in considerazione, potendo così godere della finzione della rappresentazione come se stesse osservando eventi reali. La presenza della quarta parete è una delle convenzioni più affermate della finzione, e in quanto tale ha spinto alcuni artisti ad attirare l'attenzione diretta su di essa per ottenere un effetto drammatico). 


Il termine "rompere la quarta parete" viene usato in cinema, teatro, televisione e nelle opere letterarie, prendendo origine dalla teoria di Bertolt Brecht del "teatro epico", sviluppata partendo da (e in contrasto con) la teoria del dramma di Konstantin Stanislavski. Essa fa riferimento ad un personaggio che si rivolge direttamente al pubblico, o che riconosce attivamente (tramite un personaggio di rottura o tramite il dialogo) che i personaggi e l'azione non sono reali. Questo produce l'effetto di ricordare agli spettatori che quello che stanno vedendo è finzione producendo così un effetto stridente.


Ma cosa succede quando l'iperrealismo sembra contraddirsi rivelando la sua natura finzionale? Semplice, viene meno la convenzione con il pubblico che si accorge di stare a guardare, se pur di alta perfezione tecnica, qualcosa di tremendamente artificiale e molto poco affascinante proprio per il suo palesarsi  in una modalità così evidente. Questo tentativo di realismo radicale e di perfezione, attraverso la nitidezza dei 48 fps, sostituisce nello Hobbit le grandi cavalcate i grandi paesaggi neozelandesi (presenti e così magicamente apprezzati nel Signore degli Anelli) e quel pizzico di incantata ingenuità derivata dall'uso di modellini, lattice e costumi. Il risultato è una palese artificialità di sfondi e personaggi, forse troppo perfetti, senza quella naturale imperfezione di cui è costituito il mondo.
Insomma l'eccessivo utilizzo della computer grafica e dei 48 fps al secondo sembrano nascondere qualche lacuna di sceneggiatura: il testo di Tolkien da cui è ispirato il film è forse troppo snello per una buona realizzazione tripartita. Tre film infatti sembrano più un tentativo commerciale che una reale necessità creativa di Peter Jackson.

Nonostante il successo al botteghino e le speranze per il proseguimento della trilogia (i successivi  La desolazione di Smaug e Andata e Ritorno sono previsti per il 2014 e 2015) quella sensazione di insoddisfazione per Un viaggio Inaspettato rimane, pur nella consapevolezza della maestosità di un progetto che avrà bisogno di essere un'attimo ripensato e reindirizzato nel verso giusto (si potrebbe tornare ai normali 24 fotogrammi al secondo). Se così non fosse potrebbe farci rimpiangere Il Signore degli Anelli, sancendo un pericoloso declino delle avventure Tolkieniane sul grande schermo.




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