Un centinaio di morti, quasi tremila feriti e altrettanti arresti, duemila finiti sotto tortura e altri cinquecento che sono stati cacciati via dal proprio paese. Questo è il drammatico bilancio in due anni di rivolte di un popolo che avendo la sciagura di trovarsi in un importante crocevia d'interessi del Medio Oriente viene quasi ignorato dalle grandi potenze. Non importa quanto sangue venga versato e quanti diritti vi siano violati. Ci troviamo nel Bahrein degli al-Khalifa, nel Paese della rivoluzione scomoda.
A differenza del wahabita Qatar che nonostante la comune collocazione geografica è stato capace di ritagliarsi un proprio ruolo regionale ed è passato quasi indenne nelle primavere arabe, non si può dire lo stesso del più piccolo Bahrein che a causa del suo delicato equilibrio tra sciiti e sunniti è molto più soggetto alle frizioni interne.
Lo scontro tra la popolazione a prevalenza sciita e la classe dirigente d'estrazione sunnita infatti pizzica subito i nervi dei due principali contendenti regionali, l'Iran e l'Arabia Saudita che sono i rispettivi sostenitori delle due parti. Questo spiega perché nelle maggiori cancellerie un evento che nasce come legittima istanza democratica venga riassorbito nel più ampio duello tra Riyad e Teheran e non lo si sostenga allo stesso modo della Libia, Egitto o Tunisia per il timore che un rovesciamento degli al-Khalifa getti le basi di un avamposto sciita filoiraniano al di qua del Golfo.
Per non sporcarsi troppo la coscienza l'Occidente non ha appoggiato esplicitamente la repressione che si è avvalsa anche dell'intervento delle truppe saudite sotto l'egida del Consiglio di cooperazione del Golfo, preferendo semplicemente far finta di nulla. Un atteggiamento molto simile a quello avuto nei primi tempi della guerra civile in Siria, dove l'entità del massacro ha però raggiunto un livello tale che non era più possibile girare la testa dall'altra parte, sebbene pure qui prevalga un cauto immobilismo.
Nel frattempo lo scorso giovedì, proprio nel secondo anniversario delle rivolte, un adolescente di nome Hassan al-Jazeeri è rimasto ucciso negli scontri di un villaggio non distante dalla capitale Manama, che ha visto nelle ultime settimana una ripresa delle proteste nonostante l'indifferenza generale. Le uniche concessioni fatte finora dal regno sono l'istituzione di una commissione d'inchiesta sugli incidenti avvenuti nel corso dei disordini e dei contentini economici versati alle famiglie come ogni buona petromonarchia. Ben poco da parte di una politica che, forte dell'appoggio dei potenti alleati sunniti e del silenzio di chi avrebbe altrimenti il potere di fare qualcosa, continua a evitare le riforme e il dialogo ed a schiacciare la contestazione in atto con le torture, il gas, le cacce all'uomo e i processi sommari. Un eco di autoritarismo che ancora dopo due anni risuona sempre a vuoto.
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