Invece di raccontare la drammatica epopea della guerra civile, uno sviluppo che suonerebbe ormai abusato per l'ennesima opera dedicata al presidente dell'America sul baratro della disintegrazione, Spielberg si focalizza su un episodio ristretto nel tempo ma non meno cruciale dell'intero conflitto: la battaglia parlamentare del gennaio 1865 che ha portato all'abolizione della schiavitù con il Tredicesimo Emendamento della Costituzione. Un traguardo di civiltà che oggi potremmo considerare scontato, ma che all'epoca navigava in pessime acque vista la resa imminente dei ribelli sudisti che spingeva molti deputati a mettere da parte la questione schiavista per raggiungere al più presto la firma di una pace. Gli unici che invece sono determinati a mantenere la rotta intrapresa per cancellare la schiavitù dall'America sono il presidente Lincoln e i suoi uomini più fedeli che faranno di tutto, nel vero senso della parola, per rompere un'inerzia che in fondo gli avrebbe fatto comodo per vivere in tranquillità la rendita politica acquisita con la vittoria militare.
La pellicola con un Lincoln interpretato da uno straordinario Daniel Day-Lewis (doppiato da un altrettanto bravo Pierfrancesco Favino) e Tommy Lee Jones nei panni del deputato radicale Thaddeus Stevensci ci mostra un presidente che nonostante i nobili principi che animano la sua azione è ben consapevole della giungla che ha di fronte e non si fa scrupoli di forzare talvolta gli ingranaggi per vincere una politica che sacrifica abitualmente il progresso all'altare del quieto vivere.
In questa sua ultima fatica Spielberg, che aveva già trattato il tema dello schiavismo nel film Amistad ambientato vent'anni prima i fatti di Lincoln, ha ottenuto ben dodici nominations agli Oscar, sette al Golden Globe e dieci al Premio BAFTA. Lo stile è più asciutto del solito anche per il fatto che esso ricorre più alla forza dei dialoghi che a quella delle scene (la guerra ad esempio la si vede solo in pochi minuti). Cinema allo stato puro.
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