Un rapporto complicato, fatto di alti e ultimamente troppo spesso di bassi. Questa non è la sintesi di una storia d'amore, ma del legame tra l'Italia e la politica estera e della sua fruibilità oltre il mero pubblico di settore che ha dato spunto all'incontro tenutosi questa mattina a Palazzo Giustiniani a cura dell'Istitito degli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e della rivista di geopolitica Limes.
A partecipare al dibattito, che coglie anche l'occasione per celebrare il compleanno quasi simultaneo di ISPI (80 anni) e Limes (20 anni), c'erano il direttore dell'ISPI Paolo Magri, il presidente di Euronews Paolo Garimberti e il direttore di Limes Lucio Caracciolo. Hanno inoltre dato il loro contributo alla conferenza il presidente dell'ISPI Giancarlo Aragona e il presidente del Senato Pietro Grasso.
Opporre idee e approfondimenti alle semplificazioni è stato il primo suggerimento dato dal presidente del Senato per reagire ad una crisi che non ha corroso soltanto la nostra economia, ma anche la capacità di proiettarci al di fuori dei nostri confini. Un problema che in realtà non è conseguenza delle difficoltà di questi anni, ma trae le sue origini da molto lontano come aveva già dimostrato nel lontano febbraio 1993 il primo editoriale di Limes.
La rivista allora aveva infatti evidenziato come le nostre istituzioni, dopo essere uscite dalla lunga contrapposizione bipolare e dall'approccio nei confronti della politica estera che da essa derivava, sono rimaste spiazzate da un ordine mondiale dominato non più da rigidi schemi ideologici, ma da elementi caotici asimmetrici come terrorismo o criminalità che lo stesso Grasso, in qualità di ex procuratore nazionale dell'antimafia, ha avuto modo di conoscere anche oltre il livello nazionale.
Il passare degli anni non ha fatto altro che aggravare questa mancanza nell'affrontare i crescenti problemi esteri, com'è stato ribadito dall'IPSI che nei suoi annuari ha continuamente evidenziato le scarse risorse destinate alle missioni internazionali e le molteplici incertezze che sono anche viziate da un dibattito pubblico che dà eccessiva importanza alle questioni interne.
Lo squilibrio riscontrato dai media tra politica interna ed estera è stato affrontato nel dettaglio da Paolo Garimberti, il quale ha iniziato la sua lunga carriera giornalistica proprio come corrispondente da Mosca per conto della Stampa diretta da Alberto Ronchey (1968-1973). Per Garimberti quel periodo corrispose ad una curva ascendente dell'interesse pubblico verso le questioni internazionali, che ebbe il suo apice negli anni della caduta del blocco socialista e la prima guerra del Golfo, quando giornali come Repubblica dedicavano agli Esteri addirittura 10-15 pagine.
Da allora, forse per via dell'illusoria quanto sciagurata concezione da 'fine della storia' (corsivo mio), l'attenzione del Belpaese per il mondo è andato man mano scemando e lo stesso Garimberti ne ha dato testimonianza rievocando il fatto che durante le giornate di Dayton del 1995 per mettere fine alle guerre jugoslave fosse l'unico giornalista italiano presente. Parlando dei giorni nostri è invece eclatante l'indifferenza pressoché totale dei nostri telegiornali a offrire una diretta degli eventi ucraini di Maidan, concentrando tutte le loro energie sulla tribolante formazione del nuovo governo Renzi.
A titolo consolatorio, se così si può dire, c'è la constatazione che questo disinteresse per le questioni internazionali è comune a tutto il mondo occidentale, dove a parte rare eccezioni come il Financial Times, quasi tutti i media hanno accantonato le questioni internazionali per dedicarsi più ai fatti di cronaca.
Questo appiattimento a lungo andare impedisce alla società di guardare lontano, specialmente tra i giovani, lasciandoli poveri di risposte che non siano facili pulsioni antieuropeiste. Per dare un'idea di questo impoverimento generazionale, il direttore di Euronews osserva che secondo lui l'unico politico rimasto ancora con un po' di lungimiranza in questo senso sarebbe l'ultraottantenne presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Un quadro dunque molto pessimista che per Paolo Magri può essere superato solo estendendo questo dibattito oltre le élite, come avrebbe fatto l'ISPI attraverso tre fattori che hanno caratterizzato il suo successo: la natura non accademica degli studi, la forte interazione con le imprese e le istituzioni che si occupano di politica estera e un analisi ragionata in funzione di un pubblico più ampio.
Questi tre elementi, racconta Magri, hanno accompagnata l'istituto fin dalla sua fondazione durante il regime fascista, dove si trovò nella paradossale situazione di essere considerato troppo elitario per essere compreso dalle masse, e di conseguenza non subì la censura che interessò molti altri settori dell'epoca e forse aiutò una diffusione che alla vigilia della guerra raggiunse la più che rispettabile cifra di 60.000 copie.
La sfida non sarà comunque facile a fronte della poca fiducia degli italiani sulla nostra capacità di proiezione (giudicata ininfluente dall'80% della nostra popolazione secondo uno studio dell'Università di Siena) e l'abitudine dei media a parlare di estero solo quando c'è di mezzo la tragedia o l'effimero e ignorando invece molti altri scenari che ad uno sguardo più attento sono più ricchi di opportunità di quello che sembrano.
Caracciolo da parte sua invece prova a ribaltare il problema di fondo, ossia che sono le élite quelle che in realtà non s'interessano per nulla alle questioni internazionali. Si prenda a questo riguardo la transizione che c'è stata dalla Prima Repubblica, in cui gli schieramenti politici (DC e PCI) erano direttamente legati agli schemi di due diversi ordini internazionali (USA e URSS), alla Seconda che faticava a concepire una politica internazionale staccata dalla 'peste' delle scienze politiche e dei loro modelli invariati che pretendono di spiegare tutto.
Ciò spiegherebbe il diffuso scetticismo che ha accompagnato la fondazione di Limes, dove la geopolitica di cui la rivista voleva parlare la si collegava automaticamente a quella di stampo nazionalista di epoca fascista, e non come visione più dinamica e specifica dei conflitti e delle varie poste in gioco. Anche qui l'inerzia delle élite non è un tratto solo italiano, ma esiste anche in grandi paesi come l'America, dove ad esempio per discutere di questioni sull'Europa Orientale si fa ancora affidamento a esperti di lunga data come Zbigniew Brzezinski, l'ex consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter (1977-1981).
Ma al di là dei tradizionali punti dolenti, per Caracciolo ci sono anche diversi elementi che meritano interesse. Uno di esso è la nomina di un ministro degli Esteri come Federica Mogherini che per età anagrafica ed esperienze passate, tra cui un periodo di studi con il programma Erasmus, rappresenta una carriera sicuramente più in linea con i tempi attuali. C'è poi la ben nota questione della diaspora italiana che da un lato ci priva di tanta eccellenza, ma dall'altro semina nel mondo tante 'antenne', un tesoro nascosto che bisogna trovare il modo di mettere a sistema o aggregazione.
È da quest'ultimo consiglio del direttore di Limes - oggi ho avuto anche l'onore di conoscerlo di persona - che dovrebbe partire lo sforzo non solo di pubblicazioni come Limes o l'ISPI che del racconto internazionale fanno il proprio mestiere, ma soprattutto delle istituzioni troppo a lungo dominate da temi spesso provinciali e campanilistici. Sono anche questi ad aver giocato la loro parte nel declino del nostro paese in un mondo che ha sempre meno tempo e voglia di stare fermo ad aspettarci.
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