giovedì 8 novembre 2012

Il conclave del Dragone

Per un'incredibile coincidenza nella stessa settimana le due maggiori potenze del pianeta stanno attraversando  una fase di importante transizione politica, sulla cui differenza di metodo si potrebbero spendere fiumi e fiumi di parole. La prima delle due, gli Stati Uniti, si è appena lasciata alle spalle un'elezione che com'era facilmente intuibile ha confermato l'attuale presidente in carica. Nonostante Obama si sia finalmente liberato dall'ansia da rielezione e possa trovare il coraggio di lasciare un segno duraturo nella storia, la Casa Bianca si troverà a fare i conti con una Camera di tutt'altro colore (retaggio di un sistema da molti considerano antiquato, ma rimasto sempre intoccato) che per la morsa della sconfitta non gli concederà sicuramente tregua.

La seconda, la Repubblica Popolare Cinese, ha invece aperto da poco i lavori per il XVIII Congresso del Partito Comunista Cinese dove, salvo clamorose quanto improbabili sorprese, non farà che confermare le indiscrezioni degli ultimi mesi sulla futura classe dirigente di Pechino. Ad uscire di scena saranno dunque tutti i membri del comitato permanente del Politburo che hanno raggiunto la soglia dei 67 anni, tra cui rientrano il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao. Gli unici a rimanere saranno Xi Jinping e Li Keqiang che dovrebbero assumere rispettivamente le cariche di Hu e Wen e inaugurare così la cosiddetta quinta generazione di dirigenti.
Rispetto alla precedente questa nuova classe politica ha un ricordo meno vivido delle tragedie del Grande Balzo in avanti e della Rivoluzione Culturale ed è maturata proprio negli anni dell'apertura di Deng Xiaoping. La differenza non è da poco perché ciò presuppone una mentalità molto più cosmopolita e imprenditoriale che rafforzerebbe l'inserimento di Pechino negli organismi internazionali e gli garantirebbe una maggiore capacità di influenzarne i meccanismi. Uno Stato che si annuncia perciò più efficiente, ma non più libero come hanno dimostrato le torbide lotte di potere (Bo Xilai su tutti) che hanno inaugurato quest'anno di riassestamento.
Il governo cinese in realtà non esclude l'eventualità di riforme politiche che la corruzione diffusa e le istanze sempre più complesse di un popolo che ha rimpiazzato la stasi dell'ideologia con la velocità dei consumi renderanno prima o poi inevitabili. Anzi a tale riguardo sta studiando dei sistemi che mescolano il monopartitismo al suffragio popolare come succede in Vietnam o a Singapore. Ma prima che vi siano novità sostanziali bisognerà attendere l'ingresso di una generazione che abbia vissuto gli anni del boom economico e del socialismo di mercato che hanno restituito definitivamente la Cina al mondo e l'hanno seriamente messa a confronto con valori diversi dai propri. E ciò non accadrà fino al XX congresso nel 2022. Nel frattempo resta comunque un decennio tutto da scrivere.


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