“Optai per il mare. Un bel giorno mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana…”.
C’era una volta il West, anzi, scusate, c’era una volta Carlo Verdone!
Non tutti sanno che se non fossero esistiti i famosi spaghetti – western probabilmente non avremmo mai visto sul grande schermo una delle più grandi maschere comiche dei nostri tempi: CarloVerdone.
Era il 1979 e al cinema usciva un film dal titolo Un Sacco Bello interpretato da un attore allora semi-sconosciuto se non per qualche comparsata televisiva: ciò che forse non colpì gli spettatori fu il produttore di quel film, ebbene sì, il grande maestro Sergio Leone.
Il famoso ed esperto regista riteneva di aver scoperto un giovane talento, attento ai vizi degli italiani e sufficientemente giovane per poter continuare il grande lavoro svolto nel trentennio precedente dall’indimenticabile Alberto Sordi.
Carlo, un giovane di buona famiglia (il padre Mario è stato un famosissimo critico cinematografico) vissuto da sempre per le vie della Roma più popolana, dopo essersi laureato in Lettere Moderne e aver conseguito nel 1978 il diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia con una piccola esperienza in tv (notevole è stata, specie a inizio carriera, la sua attività artistica rivolta al cabaret e, in particolare, alla televisione, con la partecipazione a programmi caratterizzati da un’idea innovativa, come fu Non stop nel 1978) accettò l’invito di Leone (ormai deciso a girare con lui un film per il grande schermo) e si recò al primo storico appuntamento in via Birmania.
L’inizio della carriera di Verdone è dunque basato sulla realizzazione di una trilogia di film che ne definiranno le successive scelte: Un Sacco Bello, Bianco Rosso e Verdone e Borotalco.
Se con le prime due pellicole (basate sulla caratterizzazione a episodi) Sergio Leone lanciò di fatto Verdone, fu forse Borotalco il film più importante (come ammesso dallo stesso attore). Il film prevedeva un unico personaggio e dunque un ipotetico fallimento avrebbe probabilmente sancito prematuramente la fine di una carriera che non poteva, per sempre, basarsi sull’imitazione e la caricatura. Verdone cercava insomma un’identità che andasse oltre e la trovò senza dubbio con questo film. In Borotalco la solitudine si mescola per la prima volta col malcostume che prende il posto delle ingenue ricostruzioni dei primi film: l’apparire a dispetto di una sostanza mediocre e superficiale definisce i “personaggi”.
C’è stata quindi in Verdone la volontà di sostituire i vari Leo, Mimmo e Furio con un solo personaggio, Sergio Benvenuti, capace anche questa volta di fare imitazioni e cambiare voce (nel film si sostituirà a se stesso proponendosi come Manuel Fantoni, aiutato da una giovane ed eccezionale Eleonora Giorgi) ma più furbo e più scaltro. Un personaggio meno surreale e più realistico nella sua delineazione. Un mediocre, senza forza e attributi che trova “se stesso” in un ambiente eccentrico che riesce a farlo uscire fuori da sé. Sergio avrà un’occasione di riscatto nella mastodontica casa di questo imbroglione: spacciandosi per Fantoni riuscirà ad incantare la genuina ed ingenua Nadia riciclando ed improvvisando le fandonie del millantatore (Casare Cuticchia, con nome d’arte Manuel Fantoni perché”suona meglio”). Ed è in questo momento che Verdone fa, come dire, l’occhiolino agli spettatori dei film precedenti trasformandosi di nuovo in un personaggio dalle fortissime tinte comiche e surreali.
Se, grazie a Sergio Leone, Verdone è riuscito ad imporsi al grande pubblico (Borotalco fu però prodotto da Mario e Vittorio Cecchi Gori) è certamente vero che la capacità di “perdurare” la si deve alla bravura artistica di questo attore romano. I film sono cresciuti con lui: tranne rari casi di smarrimento, ci hanno sempre raccontato con cura e parsimonia il mondo italiano. L’Italia e soprattutto Roma hanno fatto da teatro alle sue esilaranti avventure. L’italiano medio con Verdone evolve, cambia, si apre inappropriatamente al nuovo che avanza. Con Sordi, ad esempio, tutto questo non succede: nei suoi film è delineato un italiano medio di diverso tipo, in tutte le sue sfaccettature anche contrastanti. Verdone fa crescere i suoi personaggi con sé attraverso una maggiore dinamicità, Sordi invecchia questi personaggi rendendoli però sempre proiettati su se stessi, statici e relazionabili solo col solito ambiente più nostalgico e conservatore.
Ed è questa capacità, allora forse ancora in parte sopita, che Sergio Leone deve aver fiutato in lui: “Mi accorsi che la sua verve derivava da un controllo esagitato di un corpo senza inibizioni: Carlo parlava, parlava, parlava, riproponendo il divertente standard sordiano degli anni ’50 con disinvolta reiterazione(…) Un attore che non apparteneva a un “genere” ma solo a se stesso. Volli conoscerlo. Volevo scoprire la fonte di quella reputazione: totale, inesorabile, cinica carogneria commista ad una romanità coatta e generosa, candida e patetica, Carlo era “l’uomo che guarda”, questa fu la risposta. E per questo volli produrre il suo film di esordio, affidando a lui stesso la regia: i suoi personaggi non potevano correre il rischio di interpretazioni inautentiche…”.
“Un attore che non apparteneva a un “genere” ma solo a se stesso. Volli conoscerlo…” queste sono, a mio avviso, le parole più importanti pronunciate da Leone, conscio del fatto che Verdone aveva le possibilità di allargare e sviluppare la piatta comicità romana che, ormai, era in pieno affanno dopo gli anni d’oro ’60 e ’70 pieni di successi con Alberto Sordi e Nino Manfredi.
Proprio questa sua caratteristica lo porta a pensare che il passato, se pur grande, è passato: Verdone ha sempre guardato (al contrario di tanti) avanti, alle nuove frontiere che la comicità moderna offriva, potenziale da sfruttare per raccontare il postmodernismo italiano. Ci ha accompagnato nell’Italia dello status quo e in quella caratterizzata da un benessere altalenante, sempre con la stessa energica attenzione visiva. Questa è stata la sua forza fino ad oggi. Nell’attesa di un suo nuovo film, o un di un nuovo degno erede, gustiamoci ancora una volta la sua prima, esilarante, trilogia.
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