Quando nel 1989 uscì nelle sale il film The Abyss diretto da James Cameron nessuno si sarebbe aspettato che il suo più grande capolavoro trovasse un così poco appoggio da parte del pubblico. La critica più feroce stroncò la pellicola definendola troppo celebrale, troppo surreale, ma è certamente il più visionario e il più coraggioso anche se successivo ad altri due capolavori quali Terminator (1984) e Aliens (1986).
Ma cosa rende queste pellicole dei veri e propri capolavori nel panorama universale della fantascienza cinematografica? La capacità più spiccata di questo regista è senz’altro quella di creare ambienti e tecnologia che si interscambiano dando vita ad una contaminazione di generi che, attraverso la sperimentazione, diviene cardine creativo di tutte le opere: la macchina, l’acqua, la luce e il chiaroscuro sono quindi elementi protagonisti dei suoi film.
Primo fra tutti il Terminator, un film nato dalla volontà di mostrare i rapporti nefasti tra individuo e tecnologia, è certamente il manifesto dell’ intenzione di celebrare la macchina come nuova frontiera umana, nuova suggestione, una nuova dimensione di male e oscurità fatta di totale assenza di emozioni, sentimenti e coscienza. Insomma il nuovo tipo di mostro, cinematograficamente sviluppato e funzionale alla standardizzazione, allo svuotamento delle vite degli uomini diretti inevitabilmente verso un baratro artificiale di cemento e transistor. Il cinema di Cameron dietro la sua spettacolarizzazione, la sua esperienza di puro intrattenimento e piacere, nasconde una dimensione intellettuale più alta che ha come scopo lo studio delle intersezioni esistenziali tra uomo e progresso, tra macchine e pianificazione del futuro.
Con Terminator (ha diretto anche il sequel Terminator 2), Aliens, The Abyss, Titanic e Avatar, Cameron ha introdotto nel mondo del cinema tecnologie visive d’assoluta avanguardia attraverso un perfezionismo assoluto, nuovo e aperto al futuro dell’immagine e della rappresentazione fantascientifica. Insomma uno standard creativo molto alto che a volte tende ad abbassarsi fino a ridursi ad auto citazionismo compiaciuto che probabilmente è la causa di così pochi titoli di spessore nel corso degl’ultimi trenta anni.
Su questa linea è infatti la decisione, in questi giorni, di riproporre in versione 3D Titanic. Il film del 1997 che sbancò il botteghino e che si impose come il maggiore incasso mondiale di sempre (prima del record stabilito da Avatar) sarà dunque riproposto nelle sale ad un prezzo maggiorato. Ma ce n’era bisogno? Essenzialmente no. La motivazione non sta tanto nel film in quanto tale (anche se in effetti le vere scene mozzafiato sono comprensibilmente alla fine e riguardano l’affondamento della nave) tanto nel surrealismo tecnologico di Cameron che non ammette per un film del genere l’uso del 3D. Rispetto ad Avatar pensato e costruito per questo tipo di tecnologia il Titanic è un film surreale, amabile, ma diverso dallo stile tipico del regista. La nave-effetto speciale della rappresentazione epica di una tragedia è definita più dalla storia d’amore presente che dal suo drammatico affondamento.
Per una volta Cameron ha trasformato l’amore viscerale per le cose inanimate in attenzione per sentimenti puri, vivi, umani. E’ naturale quindi che l’introspezione e l’analisi della diegesi di questo film sono più importati di pochi minuti di “spettacolarizzazione visiva” e non giustificano quindi l’uso del 3D.
Il marchio, l’unicità di una creazione è di fatto associabile ad una scelta precisa che, in Cameron più che in ogni altro, è presente e concreta.
Il multilivello dei suoi film è quindi una sorta di sintesi tra una pittura impressionista e una puntinista che mescola i contorni e confonde le normali certezze. Da tale indefinitezza, dalle ceneri delle convenzioni e delle sicurezze non può dunque che emergere una nuova forma di vita più astuta e adattabile: la macchina.
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