Quando vedi un’opera teatrale greca in un teatro
greco, capisci. Capisci che il teatro era per i Greci, e lo è ancora oggi per
noi, qualcosa di sacro; che è un momento sociale, di incontro e conoscenza con
l’altro, ma allo stesso tempo anche un momento estremamente intimo che ti
costringe a confrontarti con te stesso. La tragedia parla a tutti e parla
direttamente ad ogni spettatore. Di certo sono i testi, classici, forti e
attuali a secoli di distanza dalla loro scrittura, che portano a questo
sommovimento di sentimenti e pensieri, ma questa stessa forza viene amplificata
esponenzialmente dalla struttura del teatro: la bellezza, la natura che entra
nella rappresentazione, la luce naturale che all’inizio abbaglia e avvolge
tutto, riflessa dalle pietre bianche del teatro, e che al tramonto invece rende
tutto romantico e mistico, l’acustica, le voci degli attori e i loro volti che
in realtà non si vedono, o, per gli antichi Greci, perché coperti da maschere,
o perché, per noi oggi, comunque più lontani che in un teatro moderno. I testi
colpiscono per la poesia e per il pathos
e nel momento in cui si pensa che prevalga la poesia ecco che si viene colpiti,
come un pugno nello stomaco, dal pathos dell’azione scenica e viceversa,
proprio perché la “formula segreta del dramma greco sembra un equilibrio
perfetto di forma e contenuto che combina temi forti con strutture
drammaturgiche e linguistiche di enorme potenza espressiva.”[1].
Esempio, atipico per alcuni versi e invece
emblematico per altri, della tragedia greca è il Prometeo. Il testo è dedicato al titano amante degli uomini a tal
punto da mettere a rischio se stesso pur di donare il fuoco all’umanità.
Il testo greco pervenuto fino a noi è il Prometeo incatenato di Eschilo ed
innumerevoli sono i rimaneggiamenti che ha inspirato, come il Prometheus di Ridley Scott giusto per
citare l’ultima rilettura. Il testo è difficile alla prima occhiata, non
cattura immediatamente con le grandi passioni che associamo alle tragedie
greche, ma ad una più attenta lettura si scopre un testo ricco di pathos, nascosto dietro l’apparente
staticità della rupe a cui Prometeo è incatenato per una punizione divina.
Il testo, a prima vista, quindi, non appare come
una “tragedia” in senso classico, ma Prometeo può essere considerato un eroe
tragico a tutti gli effetti, alla pari di Achille, dove la forza e il valore
fisico vengono sostituiti dalla forza dell’intelletto e dal valore dell’animo. La
statura eroica di Achille, infatti, risiede nella sua scelta di accettare la
morte e il dolore e di fronteggiare l’ineluttabilità del destino, pur di
vendicare l’uccisione di Patroclo, consapevole che il suo destino è di morire
in guerra, se tornerà a combattere.[2]
Anche Prometeo, pur consapevole della punizione che lo attende, sceglie di
rubare il fuoco agli dei e di donarlo agli uomini. Scelta e consapevolezza,
tratti emblematici dell’eroe greco, che ritroviamo anche in questo eroe
immobilizzato. I protagonisti della tragedia greca, infatti, “sono sì vittime
del destino e anche delle proprie colpe ma, nel momento della sofferenza,
acquistano quella dignità e quella nobiltà, che prima non avevano.”[3].
Entra quindi in scena un nuovo concetto chiave della tragedia greca: la colpa,
a prescindere che sia volontaria o involontaria. E Prometeo di certo ha una
grande colpa, è un ladro, ha rubato un bene preziosissimo, il fuoco, che avrà
conseguenze inimmaginabili per l’umanità.
[1] M. Treu
(2009), Il teatro antico nel Novecento,
Le Bussole (346) Roma, Carocci editore, p.100.
[2] G.
Guidorizzi (2000), L’età classica vol. 2 de Il
mondo letterario greco, Milano, Einaudi scuola, p. 43.
[3] G.
Antonucci (2008), Storia del teatro greco
e latino. Da Eschilo a Seneca, Roma, Edizioni Studium.
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