Un’evasione grande quanto il doppio del Pil
statunitense: 32 mila miliardi di dollari. Una montagna di dati cento volte più
pesante di Wikileaks, che al confronto sembra un riassunto di un libro per
ragazzi. Lo scandalo Offshore Leaks non risparmia schiaffi a nessuno. Ai contribuenti
per primi che dopo essere stati schiacciati ed impoveriti dal rigore si sentono veramente
presi in giro. Ma soprattutto alla finanza che troverà difficile continuare a giustificare agli altri il soccorso dell’austerity mentre nascondeva una
ricchezza a dir poco sconfinata nelle isole sperdute del Pacifico o del Mar dei Caraibi. E il
terremoto signori è appena cominciato.
Tutto inizia da un piccolo hard disk spedito in
una busta a decine di giornalisti delle più importanti testate internazionali
come il Washington Post, Le Monde, The Guardian e il Suddeutsche Zeitung.
Dentro ci sono più di 250 gigabyte di documenti da parte dell’International
Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), un’associazione di giornalisti che
vuole essere per sua stessa definizione un “watchdog”, ossia un cane da
guardia, della criminalità e della trasparenza a livello internazionale.
I giornalisti che si occupano di studiare i file si
rendono subito conto di una realtà di cui erano già consapevoli da tempo, ossia
il ricorso diffuso ai paradisi fiscali per evadere le tasse o riciclare denaro
sporco. La vera bomba è che stavolta hanno tra le mani una prova concreta,
addirittura una lista di nomi e cognomi che scoperchia un buco nero di sommerso
da far venire le vertigini a chiunque. Mettendo sullo stesso piano
imprenditori, politici, uomini della finanza, dittatori e trafficanti d’armi.
Tanti i nomi eccellenti coinvolti in modo più o meno
diretto a cominciare da banche di quel mondo germanico-rigorista tra cui Deutsche
Bank, Ubs e Credit Suisse. In Francia le rivelazioni sono andare a toccare il
cuore della politica con Jean Jacques Augier, il tesoriere della sua campagna
elettorale di Hollande, in Russia arrivano ai vertici della Gazprom e in
Azerbaijan persino allo stesso presidente Aliyev. L’Italia non è da meno con
duecento nomi che comprendono il commercialista di Tremonti, Gaetano Terrin, e molti altri che
lavoravano per conto delle più importanti aziende italiane. C’è
posto anche per un hacker, Fabio Ghioni, coinvolto nello scandalo Telecom. Per
ora non si tratta che di uno sguardo dal buco della serratura. E il bello in
realtà deve ancora venire, ahrrr.
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