È un classico del teatro americano visto attraverso le lenti della
tragedia greca Morte di un commesso viaggiatore in scena all’Elfo Puccini di Milano dal 10 gennaio al 2
febbraio 2014. Il regista Elio De Capitani, dopo Tennesse Williams e Tony
Kushner, ritorna alla letteratura statunitense.
Il cast, eccezionale, mette in scena il sogno americano: il viaggio,
il denaro, la casa di proprietà ed il frigo comprato a rate, la famiglia
solida, due figli, uno più bello dell’altro e, apparentemente, di successo,
brillanti, sportivi. Willy Loman, pater
familias e commesso viaggatore, interpretato da De Capitani, è apparentemente un venditore di
successo. In realtà, però, Willy lo interpreta solamente, lo mette in scena,
lui e la sua famiglia non lo sono. Alla fine, infatti, verrà licenziato, i
figli sono dei quaquaraquà, per citare
il nostro Pirandello ed il suo sogno americano è destinato al più misero
fallimento.
È proprio questo uno dei punti di forza del testo di Arthur Miller,
terzo marito di Marilyn Monroe: accorgersi che il sogno americano, forse, non è
la “Verità” e farlo negli anni ’50, proprio nel momento in cui questo sogno era
all’apice, l’unica via possibile e percorribile.
La messa in scena ha le caratteristiche ed il peso di una tragedia
greca. È vero, non ci sono eroi, ma il suicidio di Willy, apice e forse unica
soluzione, di un dramma che non propone soluzioni, narra solo uno status quo, quello che potremmo definire
il fatto di sangue, è solo evocato sulla scena, non è visibile. In nessuna
tragedia greca vedremo mai del sangue in scena.
Anche se nessuno dei personaggi maschili ha lo spessore umano di
quelli greci, è Linda (Cristina Crippa), moglie e madre, a fare la differenza. Il suo amore e la
sua dedizione al marito, che però non rasenta la follia, ma è sempre lucido e
consapevole, ricorda quello delle donne greche, che arrivano ad uccidere loro
stesso o addirittura i propri figli per l’amato. E proprio così Linda arriverà
a cacciare i figli di casa per il bene del marito.
La vera chiave di lettura è però il sottotitolo: Inside his head. Tutto lo spettacolo si svolge in continui salti
tra ciò che accade realmente e flashback, ricordi e ciò che immagina, e vede,
solamente Willy. Per tornare ai greci, per i quali il sogno era un modo per
dissimulare la violenza, per non far vedere i fatti di sangue.
Sembra quasi che ci si voglia dire che i nostri veri nemici sono i
nostri pensieri, i nostri “film mentali”, la nostra immaginazione. Se Willy
avesse accettato che la sua vita non era come la raccontava e fosse corso ai
ripari, accettando per esempio il lavoro che gli viene offerto ripetutamente
dall’amico Charly, il finale, forse, sarebbe potuto essere diverso?
La nostra immaginazione, però, è anche la nostra forza, così come
riassume De Capitani nelle sue note di regia: “Sognare, far finta, simulare, immaginare: sono verbi che si declinano
sia sul fronte della menzogna che su quello del progetto. Non è dunque lì il
nodo? L’uomo ha bisogno di simulazione e al tempo stesso può rimanerne schiavo.
Lo stesso dilemma della politica è tutto qui. E anche il paradosso del mio
mestiere, l’attore: la “verità scenica”, se ci pensate, è un ossimoro
paradossale. Ma come farne a meno, se quella finzione è uno strumento così
prezioso d'indagine, inventato dai greci come strumento massimo di
autoconsapevolezza. In fondo il teatro è il punto d'incontro tra tante cose che
prima mancavano all’uomo per riflettere collettivamente su se stesso. Un punto
di incontro persino tra antropologia e storia, un punto di incontro innovativo,
creato 25 secoli fa.”
Nessun commento:
Posta un commento