mercoledì 15 gennaio 2014

Morte di un commesso viaggiatore: un classico americano alla luce della tragedia greca

È un classico del teatro americano visto attraverso le lenti della tragedia greca Morte di un commesso viaggiatore in scena all’Elfo Puccini di Milano dal 10 gennaio al 2 febbraio 2014. Il regista Elio De Capitani, dopo Tennesse Williams e Tony Kushner, ritorna alla letteratura statunitense.

Il cast, eccezionale, mette in scena il sogno americano: il viaggio, il denaro, la casa di proprietà ed il frigo comprato a rate, la famiglia solida, due figli, uno più bello dell’altro e, apparentemente, di successo, brillanti, sportivi. Willy Loman, pater familias e commesso viaggatore, interpretato da De Capitani, è apparentemente un venditore di successo. In realtà, però, Willy lo interpreta solamente, lo mette in scena, lui e la sua famiglia non lo sono. Alla fine, infatti, verrà licenziato, i figli sono dei quaquaraquà, per citare il nostro Pirandello ed il suo sogno americano è destinato al più misero fallimento.
È proprio questo uno dei punti di forza del testo di Arthur Miller, terzo marito di Marilyn Monroe: accorgersi che il sogno americano, forse, non è la “Verità” e farlo negli anni ’50, proprio nel momento in cui questo sogno era all’apice, l’unica via possibile e percorribile.

La messa in scena ha le caratteristiche ed il peso di una tragedia greca. È vero, non ci sono eroi, ma il suicidio di Willy, apice e forse unica soluzione, di un dramma che non propone soluzioni, narra solo uno status quo, quello che potremmo definire il fatto di sangue, è solo evocato sulla scena, non è visibile. In nessuna tragedia greca vedremo mai del sangue in scena.
Anche se nessuno dei personaggi maschili ha lo spessore umano di quelli greci, è Linda (Cristina Crippa), moglie e madre, a fare la differenza. Il suo amore e la sua dedizione al marito, che però non rasenta la follia, ma è sempre lucido e consapevole, ricorda quello delle donne greche, che arrivano ad uccidere loro stesso o addirittura i propri figli per l’amato. E proprio così Linda arriverà a cacciare i figli di casa per il bene del marito.

La vera chiave di lettura è però il sottotitolo: Inside his head. Tutto lo spettacolo si svolge in continui salti tra ciò che accade realmente e flashback, ricordi e ciò che immagina, e vede, solamente Willy. Per tornare ai greci, per i quali il sogno era un modo per dissimulare la violenza, per non far vedere i fatti di sangue.
Sembra quasi che ci si voglia dire che i nostri veri nemici sono i nostri pensieri, i nostri “film mentali”, la nostra immaginazione. Se Willy avesse accettato che la sua vita non era come la raccontava e fosse corso ai ripari, accettando per esempio il lavoro che gli viene offerto ripetutamente dall’amico Charly, il finale, forse, sarebbe potuto essere diverso?


La nostra immaginazione, però, è anche la nostra forza, così come riassume De Capitani nelle sue note di regia: “Sognare, far finta, simulare, immaginare: sono verbi che si declinano sia sul fronte della menzogna che su quello del progetto. Non è dunque lì il nodo? L’uomo ha bisogno di simulazione e al tempo stesso può rimanerne schiavo. Lo stesso dilemma della politica è tutto qui. E anche il paradosso del mio mestiere, l’attore: la “verità scenica”, se ci pensate, è un ossimoro paradossale. Ma come farne a meno, se quella finzione è uno strumento così prezioso d'indagine, inventato dai greci come strumento massimo di autoconsapevolezza. In fondo il teatro è il punto d'incontro tra tante cose che prima mancavano all’uomo per riflettere collettivamente su se stesso. Un punto di incontro persino tra antropologia e storia, un punto di incontro innovativo, creato 25 secoli fa.”

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