Per evitare che l'incendio siriano arrivasse ad investire il loro piccolo cortile le autorità libanesi hanno preferito oscillare tra cauto distacco e timido sostegno al regime di Assad, evitando che la sua crisi potesse incrinasse il già delicato mosaico delle minoranze locali. Se è vero infatti che il governo libanese è pieno di amici della Siria (i movimenti sciiti Hezbollah e Amal, nonché la cristiana Corrente patriottica libera), esiste pure una nutrita corrente ostile a Damasco che si richiama alla minoranza sunnita e ha la sua roccaforte nella città settentrionale di Tripoli, dove non sono mancati gli scontri e le vittime tra sostenitori e oppositori di Assad che hanno rievocato lo spettro della guerra civile.
Il Libano settentrionale non è un grattacapo soltanto per le tensioni a Tripoli, ma anche per l'arrivo in questa parte del paese (in particolare Akkar, Arsal e la porosa valle di Halid) di migliaia di profughi siriani che il governo rifiuta di assistere nella paura che un'eventuale campo d'accoglienza si trasformi in una retroguardia della rivolta. Molto meglio lasciare la crisi umanitaria nelle mani dei privati cittadini o delle Ong, così almeno il potente vicino non potrà avere nulla da rimproverare avranno pensato a Beirut.
Una delle poche voci fuori dal coro della politica libanese viene da Saad Hariri, figlio dell'ex-premier assassinato nel 2005, che si schiera apertamente con i ribelli siriani. Ma avendo scelto l'esilio da quando il suo governo è caduto l'anno scorso, la sua voce risuona forse da troppo lontano per strappare la cortina d'indifferenza generale.
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