domenica 27 maggio 2012

Bedrich - XIV





Gli assedi sono faccende assai imprevedibili perché capita di restar inerti mesi interi, quando giunge d’improvviso il cambiamento che rovescia la situazione e non se ne intenda la ragione. Tale fu il destino di Smolensk che in un caldo giorno d’estate iniziò a tuonare come se un temporale si fosse abbattuto a ciel sereno con tale potenza da far tremare la terra sotto i piedi. .
Nel mentre Bedrich si era addormentato da un’ora o poco più, quando il gran rumore non lo rigirò di scatto e riprendendo i sensi vide una folla che correva agitata verso la fortezza. Sussultò per una nuova esplosione e riaprendo ancora gli occhi scorse un fumo nero e rigonfio arrampicarsi lento nel cielo. Raggiunti i compagni osservò una scena che non credeva ai suoi occhi: quelle mura che aveva paragonato alle montagne si eran sbriciolate in un lato della città e avevano aperto uno squarcio largo quanto bastava per far passare un reggimento.
“Hanno aperto una breccia! La città è nostra!” esultarono in molti vicino a lui, parlando di mine e di scavatori che dovevano essere arrivati lì sotto assieme a un bel carico di polvere.
Finalmente, pensò ad ogni modo il buon Bedrich, questa è l’occasione di riscattar il mio valore. In men che non si dica prese allora le armi e corse dal capitano che aveva già iniziato a formar lo squadrone e a discutere con gli altri ufficiali su chi sarebbe entrato per primo. O meglio ci bisticciava essendo difficile trovar soddisfazione sul posto assegnato: troppo presto si rischia di venir falciati, troppo tardi e non si trova più nulla.
Quando lo truppe iniziarono a farsi strada tra le trincee, le macerie erano si stavano liberando dalla cappa di fumo del crollo che nascondeva chissà quali insidie e pericoli. Una bestia dopotutto pur se ferita è capace di colpire e i soldati lo sapevano tanto che già puntavano i loro moschetti ora che si intravedeva meglio. D’un tratto però un cannone amico provò a colpire in mezzo alla coltre, ma la palla era mal diretta e si schiantò su di un muro che vomitò dei pezzi con gran fracasso e alzò un nuovo polverone che non fece vedere più niente. Gli uomini perciò si bloccarono e persino i generali esitarono a proseguire.
“Ma dove tirano quegl’imbecilli?!” s’indispettì un capitano dietro alla compagnia dove stava il Bedrich.
Questi guardava in silenzio la polvere appena sollevata dai detriti, i compagni preoccupati, le mura che si avvicinavano e il fumo nella breccia attraversato dalla scarica di lampi dei difensori che spararono. Chi non morì al primo attacco rispose col suo moschetto alla cieca, perché era davvero impossibile distinguere chi fosse appostato nel passaggio e invece di farsi bersagliare da un nemico fantasma i soldati preferirono avanzare nel buio e stanare i tiratori.
Una colonna di fucilieri si arrampicò da destra, mentre gli altri con lance e spade seguivano a passo più veloce e vennero inghiottiti nella coltre come un sasso buttato al mare. Quando fu il turno della sua compagnia l’intrepido Bedrich udiva soltanto le grida e lo sferragliare delle armi, qualche volta anche gli spari, e purtroppo non accennava a schiarire neppure salendo sulle prime rocce su cui poggiava con la sinistra la picca e la destra reggeva la spada in caso di brutte sorprese.
Calpestò senza volerlo i corpi schiacciati dall’esplosione e di chi era morto poco prima o stava a buon punto se nel toccarlo continuava a gemere. Per colpa dell’aria pesante si respirava a fatica e sudava parecchio, anche se grazie al cielo arrivò presto al di là delle rovine dove la nebbia si aprì con uno squarcio mostrando la città nuda ai loro occhi.


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