Nessun “investigatore di menti umane” avrebbe mai potuto pensare che il nuovo film di Tim Burton, Dark Shadows possedesse elementi di spicco riguardante la crisi del mondo occidentale. In questo nuovo film, tratto da una soap opera statunitense degli anni ’70, ragione e irrazionalità convivono nel vampiro Barnabas Collins: in sé fonde insieme un racconto di emarginazione, una storia d’amore impossibile e una tematica tanto cara al regista, il diverso che tra i “normali” finisce per apparire molto più “umano” e profondo rispetto al contesto sociale.
Il concetto di familismo, avidità e superficialità emerge con prepotenza sin dalle prime scene del film dove fanno da contraltare l’amore non corrisposto e la dissomiglianza tra l’animo di Barnabas e l’ostinata aspirazione all’apparire della famiglia Collins. Perché familismo? Tim Burton dimostra anche in questa pellicola tutta la sua avversione per le forme ipocrite di benevolenza, lega tutti i personaggi (tranne il Vampiro e la Strega) al filo diretto del denaro e del potere, della materialità e del cinismo finendo per staccarli, isolarli dal contesto cittadino, a volte dalla storia stessa.
Insomma un film in cui è chiaro l’intelletto, la personalità e il cuore dell’autore (regista) che grazie alla sua soggettività palesa sullo schermo un’interiorità creativa ed ironica che ci concede qualche risata di gusto quà e là.
E non c’è da stupirsi, ne da rimanere delusi sul poco spessore che, nell’economia della storia, assume la relazione tra Barnabas e Victoria, personaggio assolutamente trascurato ed “emarginato” dai temi reali del film. Se infatti la strega Angelique altro non è che il cieco capitalismo, il denaro e il potere rifiutati nella loro aridità da Barnabas, il duo Victoria/Josette richiama quell’amore puro, dai colori intensi di Edwardiana memoria ma che in questo contesto non sono stati considerati da Burton fondamentali per la storia che voleva raccontare.
Una favola oscura, un ennesimo esempio di “poetica della divesità”, la storia di un essere “inaccettabile” ma tuttavia compreso in un universo famigliare fallimentare. I suoi parenti colgono un anomalo quanto funzionale punto di ripartenza per una ripresa, per una scossa che i “normali”e convenzionali non sono più in grado di dare, nella sua originale natura di vampiro ed immortale. Barnabas se confrontato col personaggio di Edward mani di Forbice risulta meno isolato, più vittima di se stesso ma allo stesso tempo rappresenta il “bambino anziano” incapace di rapportarsi col mondo esterno, coi suoi progressi e le sue tecnologie.
Un’altro parallelismo possibile è con Oliver Twist: il personaggio tratto dai racconti di Charles Dickens possiede una personalità apparentemente fragile ed è anch’esso vittima di violenze, soprattutto di tipo psicologico. Accanto ad Oliver, così come a Barnabas, è presente un nucleo famigliare che non è altro che la traslazione ideale dei problemi del protagonista, come se le loro fragilità prendessero corpo e vita nei consanguinei.
Ma dove sono dunque le novità, la nuova frontiera verso cui Tim Burton si è spinto in questa pellicola? E’interessante notare come Angelique, la strega malvagia, sia assolutamente una rappresentazione atipica per il regista: alla furbizia, alla celestialità e alla doppiezza della “donna gatto” sostituisce nella costruzione di questo personaggio l’invidia, l’amore non corrisposto e l’aridità d’animo. Elementi nuovi nella rappresentazione della donna, molto più convenzionale e dunque meno interessante è infatti Victoria che rientra in standard già visti: la morte per Angelique sarà infatti l’unica via di salvezza in una realtà di isolamento e di totale assenza di valori, la decisione di renderla simile ad una bambola di porcellana, tanto bella quanto fragile, risulta elemento comparabile all’altrettanta fermezza di Barnabas e della sua “nuova famiglia”che con lui ritroverà sicurezza e convinzione. Barnabas è dunque l’elemento riempitivo di un vuoto assoluto, un vuoto che di fatto finisce per distruggere Angelique che va letteralmente in pezzi nel momento del trapasso.
Tim Burton, dunque, ci ha resi partecipi della sua idea di famiglia, della convinzione che il falso perbenismo sia il vero male, che nessuno può arrecarsi il diritto di conoscere le teorie del diverso e di adattargli un’etichetta fissa. Insomma con questo film (non un capolavoro, ma una pellicola efficace) familismo, crisi economica e umana si incontrano e si riorganizzano in chiave soggettiva, in chiave Burtoniana, senza la pretesa di elevarsi a dottrina universale.
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