mercoledì 6 giugno 2012

Tim Burton e Lewis Carroll: L’Oscurità Anarcoide di Alice



“È un progetto davvero divertente. La storia è ovviamente un classico, con immagini, idee e concetti molto iconici. Ma tutte le versioni cinematografiche fatte sinora… insomma… non ne ho mai vista una che avesse un vero impatto su di me. Viene sempre fuori qualcosa che mostra una serie di strani eventi. Ogni personaggio è strambo, e Alice non fa che vagare da un incontro all’altro, risultando quasi solo come un osservatore. Il mio obiettivo è quello di fare un film interessante e coinvolgente che esprima un po’ della psicologia del libro, e porti freschezza alla storia mantenendone la natura classica. E, sapete, realizzarlo in 3-D stereoscopico è perfetto, visto il materiale di base. Quindi sono molto eccitato, non vedo l’ora di realizzare questa versione che, sì, sarà nuova, ma avrà anche tutti gli elementi che la gente si aspetta di trovare”.Tim Burton

Il reverendo matematico e scrittore inglese Charles Lutwidge Dodgson, alias Lewis Carroll, pubblicò per la prima volta Le avventura di Alice nel Paese delle Meraviglie nel 1865. La leggenda vuole che si tratti di un racconto orale, da lui quasi interamente improvvisato, narrato per intrattenere tre piccole sorelle: Lorina Charlotte, Alice e Edith Liddell, impegnate in una gita in barca con lui e il reverendo Robinson Duckworth. Dodgson era solito inventare le fiabe per affascinare i bambini cui talvolta doveva badare e possedeva un talento straordinario per la narrazione estemporanea. La storia, successivamente trasposta per iscritto, usando lo pseudonimo di Lewis Carroll, fu integrata dai disegni di Jonh Tenniel, un grande pittore e illustratore inglese, divenendo un cult-letterario della cultura popolare americana.

In Alice in Wonderland, Tim Burton e la sceneggiatrice Linda Woolverton hanno lavorato sul materiale di Carroll creando a tutti gli effetti dei personaggi “nuovi”, inseriti logicamente in una trama ben definita. Questo processo ha causato una voluta presa di distanza dall’anarcoide stile carrolliano: non più incontri accidentali in un universo privo di leggi (persino il tempo può essere fermato all’ora del tè) bensì relazioni ben strutturate e organizzate in modo organico da tutti i personaggi della storia. Il paese delle meraviglie descritto da Carroll è in effetti un gioiello di nonsense e surrealismo. 
L'obbiettivo comune è che l’eroina possa liberare il sottomondo dalla dispotica tirannia della Regina Rossa (o Regina di Cuori) uccidendo nel giorno “Gioiglorioso” il Ciciarampa. Burton decide di cambiare direzione al racconto di formazione e cala Alice in una progressione dagli stratificati significati allegorici. Il momento di presa di coscienza e di passaggio dall’adolescenza all’età adulta è simboleggiato dallo scontro con il terribile drago nero e il suo vittorioso esito. Il Ciciarampa rappresenta le difficoltà più aspre che la vita pone davanti a ogni individuo, in un percorso formativo che è pieno di ostacoli. Tali opposizioni sono sia interne che esterne al soggetto, alla protagonista, che è chiamata comunque ad uno sforzo, ad un sacrificio per superare tutte le barriere e festeggiare così il giorno della maturità.
Nei romanzi esso è il simbolo del puro nonsense, Burton capovolge questa figura mantenendone soltanto gli aspetti visivi legati a illustrazioni visionate in precedenza. Ne scaturisce un essere gotico, feroce e allegorico che ingaggia un violento scontro con Alice sul campo di battaglia della lotta finale tra i due eserciti. Con la testa del drago viene giù definitivamente anche il malinconico senso di esclusione di parecchi personaggi Burtoniani, gli esclusi, gli outsider dei film precedenti che cercavano vanamente il proprio spazio nella società, finendo inevitabilmente ai margini.

In ultima analisi il dato più interessante di questo film è il fatto che va a costituire una sorta di terzo capitolo della saga di Carroll: da un lato si rinuncia al fedele rifacimento, dall’altro ambisce a una sorta di prosecuzione e reinvenzione del mito stesso. In Lewis Carroll non c’è nulla di apertamente gotico, fondamentalmente ha ben poco di dark, di macabro e interpreta il fiabesco in un senso completamente differente da come lo intende Burton, ma comunque è possibile un’ individuazione di elementi comuni tra il narratore inglese e il regista americano: il primo è l’indubbia capacità di entrambi di immaginare e poi generare mondi alieni, mondi “altri”, alternativi a quello reale. Mentre in Carroll però questi viaggi surreali, nei sovra mondi ideali, sono solo estemporanei, in Burton rappresentano un rifiuto deciso del reale.
Il secondo punto riguarda l’attenzione alle problematiche dell’infanzia: il romanziere e il cineasta hanno tutt’altro che una visione positiva degli adulti. È sulla base di queste caratteristiche che Tim Burton utilizza il mondo utopistico carrolliano per ambientarvi una “propria storia”, lasciando il proprio marchio di fabbrica su un mito della cultura popolare americana. In conclusione è importante sottolineare che l’elemento che imprime maggior forza al film è quello visivo; attraverso l’immagine, con la propria oscura e melanconica visione, Burton contamina il sottomondo, trasformandolo in una realtà parallela e gotica.

Il passaggio dal sopra al sotto segna anche l’accesso dalla luce all’oscurità: una luminosità che paradossalmente è tinta di bianco. In superficie, infatti, sfoggiano affascinanti cromatismi neutri che contrastano con l’oscurità del sottomondo: in questo luogo magico è insita una vera e propria esplosione coloristica. Tutto si risolve, dunque, in termini di cromatismo estremo e di elementi estetici che frantumano di fatto i cartoon disneyani. Essi avevano depositato nell’immaginario collettivo, a cominciare dai continui cambiamenti d’abito di Alice, non più stretta negli stereotipi tipo abitino bianco o azzurro, acconciatura sempre a posto, visino angelico, un’idea troppo innocua e innocente, e secondo Burton troppo convenzionale e superficiale. Ciò che è conforme e che risolve i propri deliri interiori nell’immaginario Disney è dissacrato da Burton, il concetto di lieto fine espresso dal film è infatti l’unica violazione al suo stesso stile e insieme alla danza finale, la Deliranza, è l’unico aspetto incomprensibile e ingiustificato nella realizzazione di questo progetto.


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