Fa un certo effetto assistere ad un incontro di politica estera italiana contemporaneamente alla crisi di governo. Gli sviluppi in corso hanno effettivamente viziato un po' la conferenza dell'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale che si è tenuto oggi al Palazzo Marini della Camera dei Deputati. Da un certo punto di vista le difficoltà politiche spiegano in modo ancora più esemplare quelle sulle capacità del nostro paese di muoversi nel mondo.
Una prima conseguenza di questa (non tanto inaspettata) notizia è stata l'assenza per ovvie ragioni del Ministro degli Esteri Emma Bonino, come ha dovuto fin da subito precisare Giancarlo Aragona, presidente ISPI, durante l'apertura della discussione che ha come finalità principale quella di presentare il Rapporto 2014 della collana "Scenari Globali e l'Italia", che porta lo stesso titolo dell'evento e analizza tematiche quali il ruolo dell'Europa nel mutato scenario internazionale, il rapporto tra questa e il nostro paese e le strategie adottate in politica estera dall'Italia durante l'anno appena trascorso.
Sul primo argomento si è soffermato Alessandro Colombo, professore di relazioni internazionali all'Università degli studi di Milano, che ha descritto l'attuale ridefinizione del potere mondiale come un processo dominato sopratutto dalla confusione. Da una parte abbiamo un'Europa che dal Novecento ad oggi ha attraversato un irreversibile declino - Colombo si riferisce a lei nell'ambito della guerra fredda in termini di una 'posta in gioco' tra le superpotenze - aggravato dalla mancanza di coesione e crisi economica che la candidano a grande perdente (da qui il titolo 'in seconda fila') di questa partita internazionale. Ultimo residuo della potenza occidentale restano gli Stati Uniti, i quali però a causa dei fallimenti delle guerre mediorientali tendono ad abdicare dal loro ruolo di guida a dispetto di una potenza ancora considerevole.
Di fronte a questo declino ci si aspetterebbe che i cosiddetti paesi emergenti, o Brics, compensino questo vuoto di potere. Ma questi ultimi faticano ad emergere come nuovi protagonisti perché tendono a mantenere un basso profilo o a promuovere una politica estera di puro prestigio, ma dagli scarsi effetti a lungo termine. Il risultato di questa loro riluttanza ad assumersi responsabilità compatibili con la loro ascesa complica la risoluzione di problemi e conflitti che le potenze di una volta non vogliono o non possono più assumersi, facendo temere a Colombo che all'unipolarismo americano non succeda il multipolarismo di cui si parla tanto, ma un apolarismo gravido di pericoli per la stabilità mondiale.
Non offrono maggior ottimismo i rapporti tra quest'Europa declinante e l'Italia che, come riferisce Franco Bruni, vicepresidente ISPI, dopo un 2012 passato nel segno delle rassicuranti (per Bruxelles) politiche di Monti ha visto un quadro molto più confuso a seguito delle elezioni del 2013.
Le divisioni politiche che sono seguite il voto avrebbero ritardato l'adozione di varie misure ritenute necessarie a risanare il debito e a stimolare la competitività, mettendo a dura prova la pazienza dell'Unione Europea che ha cercato comunque di ammorbidire le politiche di austerity chieste alle economie comunitarie più fragili come Grecia, Spagna, Portogallo e ovviamente l'Italia. Una soluzione per ridare slancio al nostro paese e non solo secondo Bruni potrebbe essere puntare ad un maggiore coordinamento delle politiche commerciali, mentre all'interno incentivare le medie imprese rispetto alle piccole e lasciar valutare le politiche di sostegno alla competitività da appositi organismi di valutazione esterni come succede nel Regno Unito.
E al di fuori dell'Europa come ci comportiamo? Qui entra in gioco Franco Venturini, giornalista del Corriere della Sera, che sottolinea i tratti che hanno contraddistinto la nostra politica estera rispetto alle altre potenze. In certi scenari come la Siria, l'Iran o la Russia (riferendosi alla discussa visita di Letta all'inaugurazione delle Olimpiadi di Sochi) ha prevalso un atteggiamento diplomatico. In altri dossier che sarebbero anche più importanti per la loro immediatezza come la parte di Mediterraneo attraversata dalla primavera (o sarebbe il caso di dire inverno) araba ci distinguiamo invece per la nostra inerzia. Lo dimostra la clamorosa assenza italiana in Tunisia, forse l'unica rivoluzione veramente compiuta nell'area, e in Libia, dove arriviamo persino a non parlare tra di noi, con il governo che addestra le truppe libiche per conto degli americani, mentre il colosso energetico ENI persegue una strategia completamente autonoma da Roma. Immancabile la menzione al caso dei marò in India che Venturini pensa potremo risolvere soltanto per mezzo di un'internazionalizzazione della crisi attraverso l'Ue e la NATO, non mancando di lanciare qualche frecciatina alla ritirata di Ban Ki-moon, che farebbe il paio con l'imbarazzante condotta del segretario delle Nazioni Unite con la chiamata dell'Iran durante la conferenza di pace siriana.
Dal discorso di Venturini si capisce dunque come la nostra politica estera manchi di coerenza e prospettive. E non potrebbe essere diversamente stando ai dati enunciati da Paolo Magri, direttore dell'ISPI, che mette ad impietoso confronto i dati sulla nostra diplomazia con quella dei maggiori competitors europei. Innanzitutto la continuità della nostra politica estera è compromessa da un numero di ministri che negli ultimi tredici anni è stato cinque volte quello della Russia e il doppio del Regno Unito (praticamente uno ogni anno e mezzo). Ma lo scenario è reso ancora più drammatico dalle limitate risorse destinate a questo settore:
- 0.21%. del bilancio nel 2013 rispetto al 1.15% di Germania o al 1.78% Francia;
- 7.700 l'ammontare totale del personale contro i 13.000 dei tedeschi;
- 898 diplomatici contro i 3350 del Regno Unito o 2.700 della Francia e i 1.865 della Germania;
- una rete diplomatica pari agli altri, ma meno ambasciate e troppi consolati;
- 2 diplomatici per sede contro 8 inglesi o 6 francesi o 4 tedeschi;
- prevalenza dei diplomatici in Europa (44%) e Stati Uniti (22%) rispetto ai contesti emergenti;
secondo Magri non basta giustificare questa contrazione con le politiche di austerity e spending review, anche perché l'entità dei tagli è tale da mettere in dubbio l'esistenza stessa di una politica estera. Neanche una politica di neutralità come quella descritta da Venturini può essere un spiegazione valida, visto che il paese neutrale per eccellente come la Svizzera spende comunque molto di più di noi.
Che può fare allora la Farnesina per risolvere la situazione? A rispondere per il ministero degli Esteri è intervenuta il viceministro Marta Dassù, che ha preso il posto della Bonino, la quale ha puntato subito il dito sulla necessità di ristrutturare la rete diplomatica. Richiamandosi al rapporto Farnesina 2015, la Dassù traccia alcune linee fondamentali a cominciare dalla riduzione dei consolati in Europa - in Svizzera ad esempio ce n'è sono ancora 9 da parte nostra - e potenziare la rete in Africa o in Cina. Un'altra idea sarebbe quella di utilizzare delle sedi europee uniche negli scenari più sensibili, così da favorire lo sviluppo di una sinergia comunitaria.
A tale proposito l'Italia dovrebbe approfittare dell'imminente presidenza Ue di quest'anno per spingere verso l'unione bancaria e una riforma della governance che rendano più efficiente la sua politica economica. A questo scopo secondo la Dassù bisogna concentrarsi in un programma d'investimenti invece che di rigore per migliorare la nostra competitività, consolidare l'accordo di libero scambio tra Europa e USA (conosciuto come TTIP) e rafforzare il mercato interno dell'Ue. Solo questo e non la 'complacency' che caratterizzava la vecchia Europa con un forte Stato sociale e bassa crescita possono allontanare un euroscetticismo, il cui unico effetto sarebbe quello di dividerci e renderci ancora più impotenti di fronte alle sfide internazionali.
Da queste due ore a palazzo Marini esce dunque l'immagine di un'Europa, ma soprattutto di un Italia - mi sarei aspettato almeno un'osservazione sulla 'mancia' presa recentemente da Letta in Medio Oriente, ma pazienza - gravemente impreparate a gestire un mondo in continuo mutamento.
Un altro esempio citato di questa difficoltà è quello ucraino: quando lo scorso autunno l'Europa e la Russia fecero le loro offerte di aiuti economici a Yanukovich, la differenza era rispettivamente di 600 milioni contro i svariati miliardi di Putin. Inutile dire che a queste condizioni la partita fosse già decisa. Poi è scoppiata come un fulmine a ciel sereno la rivolta, più antirussa che filoeuropea a dirla tutta. Bruxelles ha allora chiesto aiuto a Washington e al Fondo Monetario Internazionale per riprovare a convincere il presidente ucraino con una borsa più sostanziosa. Difficile capire come andrà a finire. Lo stesso si potrebbe dire per la nostra diplomazia dopo che l'ennesimo nostro governo è caduto sul campo.
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