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martedì 6 novembre 2012
Una grigia campagna - seconda puntata
Il gran voto è dunque arrivato e l'America si prepara a scegliere la guida che vorrà nei prossimi quattro anni. Scelgo tuttavia di non attendere il responso delle urne, che al di qua dell'Atlantico avremo solamente a notte inoltrata, perché molte delle cattive impressioni che mi hanno trasmesso queste presidenziali si confermano anche al momento conclusivo di questa lunga campagna.
Dal mio punto di vista la sfida tra Barack Obama e Mitt Romney è la competizione più fiacca a cui abbia mai assistito dai tempi di Bush jr. e Al Gore. Entrambi i candidati non hanno saputo offrire alcuna visione di ampio respiro e la cosa è alquanto grave per un paese come l'America che ha fatto dei sogni e dei grandi progetti uno dei suoi tratti fondamentali.
L'Obama di oggi è solo un pallido ricordo del fenomeno che quattro anni fa era stato capace di accendere le speranze non solo del suo popolo, ma quasi del mondo intero. Certo, bisogna sempre evitare facili entusiasmi perché ogni politico, anche il più idealista, si trova costretto a scendere a patti con una realtà molto più cinica. D'altronde l'America che aveva ereditato versava in una condizione fin troppo problematica, tra la crisi economica e l'overstretching internazionale che apriva dei vuoti subito riempiti dai competitors geopolitici come Cina o Brasile. L'attuale presidente è stato perciò costretto a riconoscere la difficoltà a rilanciare la superpotenza a stelle e strisce come promesso, il che ha sì il pregio di riportare l'America coi piedi per terra ed eventualmente ritrovare un qualche equilibrio, ma si tratta sempre di un'intollerabile umiliazione per un popolo che ha sempre creduto di essere diverso dagli altri e per questo di non doverne vivere gli stessi problemi.
Anche Romney dal canto suo cerca di stuzzicare l'elettorato con il ritorno dei bei tempi andati e la fine di un'amministrazione che a suo parere sta dirottando l'America sulla strada di una depressione simile a quella spagnola o italiana (grazie). Ma anche lui in caso di vittoria dovrà fare i conti con un mondo che lascia sempre meno spazio all'America e che in caso di avventure azzardate come la guerra del terrore potrebbe scatenare conseguenze ben più disastrose. Ad ogni modo i vari scivoloni fatti nelle interviste e nei dibattiti, nonché la debolezza del candidato stesso che non è poi così amato dalla pancia del partito hanno tolto mordente e credibilità alla sua proposta, senza le quali è quasi impossibile scalzare un presidente così indebolito da avere dalla sua giusto la garanzia di continuità.
Sarà probabilmente proprio quest'ultima ad offrire ad Obama maggiori possibilità di vittoria. Si potrebbe quasi dire che è il suo unico asso nella manica visto che la parità nei sondaggi di cui si è tanto parlato in questi giorni è comprensibile alla luce dei limiti sopracitati, dove i due candidati purtroppo si trovano a condividere la stessa tragica mancanza d'immaginazione. Queste grige presidenziali rappresentano dunque lo specchio di una nazione che pur avendo all'orizzonte ancora molti anni di supremazia ha già imparato a pensarsi non più così speciale.
giovedì 20 settembre 2012
Una grigia campagna
Devo confessarlo Mitt Romney non mi ha mai suscitato particolari emozioni. Lasciamo perdere le distanze ideologiche che vanno bene per discutere nei salotti non per conquistare l'elettorato e invece parliamo proprio della sua capacità di trascinare le folle come seppe fare Obama grazie al suo "Yes, we can!". Se i sondaggi fino a pochi giorni fa davano i due candidati delle presidenziali con percentuali da fotofinish lo si doveva infatti più alla relativa debolezza di Obama che ai meriti del suo sfidante.
Pare di assistere ad un remake delle elezioni del 2004, quando a dispetto dell'insofferenza generalizzata sul suo operato George W. Bush riuscì comunque a spuntarla contro un avversario privo di mordente, regalando all'America altri quattro anni di declino che probabilmente neppure lui (colpevole ad ogni modo di clamorose manchevolezze) poteva riuscire ad invertire del tutto.
Considerando il disastro ereditato dal suo predecessore, Barack Obama ha fatto senz'altro di meglio, ma è innegabile che si è lasciato definitivamente alle spalle le visioni dall'ampio respiro di una volta. Meglio puntare allora su una più sobria continuità e convincere la gente che solo così è possibile consolidare il fragile equilibrio raggiunto, laddove l'elezione di un repubblicano lo metterebbe a serio repentaglio. Noi saremo pure spenti ma almeno siamo tranquilli, loro invece sono divisi e finirebbero col creare soltanto confusione: questo è il messaggio su cui i democratici stanno puntando per vincere delle elezioni che non suscitano grandissime aspettative.
Gli elementi a sostegno della mina repubblicana sono certo tanti: il populismo del Tea Party, la logorante lotta delle primarie che hanno compromesso l'unità del partito e persino degli imperdonabili scivoloni dello stesso Romney che secondo alcuni opinionisti hanno già suonato la campana a morto per la sua corsa alla Casa Bianca. E i democratici, rassicurati, non si sbilanciano più di tanto. Una noia mortale, non c'è che dire...
giovedì 8 marzo 2012
L'impazzita maionese repubblicana
A districare la matassa del Grand Old Party non c'è riuscito neppure il Super Tuesday, il giorno in cui il numero degli Stati americani interessati dalle primarie ha buone probabilità di determinare chi correrà per la Casa Bianca. E invece con un risultato di 6 a 3 per Romney (che ha vinto in Ohio con un misero 1% di vantaggio) la lotta tra lui e Rick Santorum non è ancora finita. Come non ha finito di soffrire il Partito Repubblicano.
E' dal tramonto del messianismo di Bush che i conservatori faticano a offrire una proposta politica di ampio respiro, un'idea che vada oltre la pura e semplice protesta contro l'establishment e un Presidente che considerano debole e persino incompatibile con lo spirito americano. Una posizione sostenuta principalmente dal giovane (ma già influente) movimento del Tea Party, la cui ascesa coincide con l'arrivo di Obama e le sue politiche economiche a favore dei salvataggi delle banche e di un più robusto sistema sanitario.
Questo spiega la forza di un candidato come Santorum, il quale probabilmente non sarà in grado di vincere la competizione, ma la corrente che rappresenta non potrà essere riassorbita senza una qualche compensazione. Il che significa un Romney dalle posizioni più estreme che potrebbe spaventare l'elettorato medio e magari non essere neppure sufficiente a conquistare chi tra i conservatori più oltranzisti non si fida di lui.
La strada del GOP per il 6 novembre è dunque in salita e se non riuscirà a superare le proprie difficoltà non solo spianerà la strada ad un secondo mandato di Obama, ma diventerebbe sempre più succube del Tea Party che a quel punto sarebbe l'ultimo collante ancora capace di scaldare i cuori dei repubblicani delusi. E con un'opposizione così incattivita ma ancora forte sia al Congresso che al Senato quello che dovrebbe essere il mandato più incisivo di Obama (perché libero da ansia di riconferme) rischia di non avere vita facile.
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