martedì 5 giugno 2012

Tim Burton: la fatata malinconia della fiaba gotica



Da quando nel 1895 i fratelli Lumière inventarono il cinematografo, la letteratura ha ripetutamente rappresentato un’eccezionale fonte di ispirazione per la cinematografia. Questi due codici espressivi, nella loro concezione romantica ed espressionista di mondi fantastici e universi tangenti, rappresentano, grazie a due autori come E.A. Poe e Tim Burton la testimonianza più diretta di come nell’arte sia fondamentale l’occhio, l’intelletto, la personalità e il cuore dell’autore, di come insomma la soggettività e l’interiorità appartengano alla sfera creativa.
Le fiabe, in particolar modo quelle gotiche, sono per definizione lo spazio dell’immaginario, della fantasia che si esercita attraverso una breve narrazione in cui sono coinvolti “tipi” e situazioni facilmente riconoscibili. Esse sono le espressioni di un interiorità, sono il bene e il male delle nostre personalità. L’idea positivista che svela l’ambizione ottocentesca di manipolare attraverso la scienza la psiche umana nel folle tentativo di dividere concretamente il bene dal male non ha fornito, per fortuna, risposta al grande mistero dell’intelligenza e della soggettività umana.
Ma cosa sarebbe stato della letteratura, ma più in generale di ogni forma creativa, se il conflitto tra rettitudine, convenzione e immoralità fosse stato risolto? Ritengo che soltanto questa continua tensione possa realmente stimolare la creazione e la fascinazione di capolavori quali: Moby Dick, Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde, Il ritratto di Dorian Gray, Storia di Arthur Gordon Pym, I delitti della rue Morgue o La maschera della morte Rossa e altre. Ciò che più affascina in questo tipo di letteratura è certamente la dualità dell’uomo: la parte “accettata” e presentabile, quella che si vuole della ragione, perfettamente inserita in una società borghese, conformista e stereotipata, che codifica i comportamenti e rifiuta le diversità e dall’altra la componente oscura, legata più all’istinto,alla natura, parte che, per convenzione, dovrà esser nascosta pena l’emarginazione, la solitudine, la frustrazione.
Ma chi più di tutti incarna oggi questi ideali e ha il coraggio di denunciarli attraverso la sua creatività? Partendo da Tim Burton dunque non si può non tenere conto del tema più caldo al regista di Burbank: i racconti di emarginazione. Storie di personaggi profondamente segnati dalla loro diversità fisica e psicologica rispetto ai modelli veicolati dalla società dell’etichetta e delle convenzioni: si pensi tanto per fare due esempi a Edward mani di forbice e a Oswald, il pinguino, in Batman-il ritorno. Ora da quale fonte letteraria Burton può aver attinto oltre che dalla propria esperienza onirica per descrivere cinematograficamente le sue storie? Tre autori possano averlo influenzato: Edgar Allan Poe, Washington Irving e in una componente minore ma senza dubbio rilevante Lewis Carroll.

Sono certamente i primi due, attraverso le loro ispirazioni alla cultura gotica, il baluardo creativo del regista. Prima di lui ci hanno condotto in mondi ultraterreni, in mondi “altri” dove norme e regole, laddove presenti, possono essere diametralmente opposte a quelle del mondo reale; mondi che aprono spazi di libertà inimmaginabili e impossibili in un mondo “normato” dalla classe dominante. In Edgar Allan Poe, in Carroll e in Washington Irving si apprezzano l’abilità narrativa, l’intensa suggestione emotiva, la penetrante indagine nel mondo del mistero e l’acuta analisi psicologica dei comportamenti umani. Burton riproduce, aggiornandola e personalizzandola, l’atmosfera “gotica” a partire dalle architetture fatte di volte ogivali, di archi rampanti esterni, con predominio delle linee verticali (si pensi alle scenografie di “suoi” Batman). E’ presente inoltre un particolare slancio verso l’alto con prevalenza di un cromatismo tendente al nero.

Il colore dell’indistinto, che insieme ai grigi rende fumosa l’atmosfera, non facilmente definibile, quasi a voler dipingere e analizzare il mondo trasformandolo nella oscura realtà dell’animo umano.
La passione giovanile per il disegno e l’esperienza maturata alla Disney a partire dal 1979 hanno facilitato l’approccio di Burton con l’animazione filmica: spesso il regista ha utilizzato suoi disegni, poi vivificati con la tecnica della Stop-Motion, per raccontare i temi a lui cari, quasi a voler togliere una precisa identità fisica ai personaggi, dalle caratteristiche spesso caricaturali. Burton ha mascherato ogni suo protagonista come a voler sottolineare che l’inconscio e l’animo umano non hanno volto ma sono espressione soggettiva di chi guarda: è una presa di consapevolezza dell’immagine metaforica costruita da milioni di individui stereotipati e convenzionali che essa rappresenta in una vera e propria figura oscura, l’apparenza, specchio del conformismo sociale utile/fondamentale per poter essere accettati.
Questi autori si sono cimentati nella ricostruzione o re-immaginazione dei loro mondi e il regista americano, oggi, ne ha compiuto una transcodificazione: un passaggio da un codice narrativo ad un altro. Questa è un operazione che Burton ha condotto in modo molto delicato: essa richiede una sensibilità estrema e una conoscenza totale dei due mezzi espressivi che prima devono convergere, poi mettersi a confronto e trasformare infine l’espressività testuale in espressività diegetica.

Ci si chiede il perché di una trasposizione consapevole di temi, di stili, di tecniche. Ciò che importa, in ultima analisi, è però quello che da essi penetra nelle nostre coscienze: forse la percezione di un’eternità che vibra nel “riconoscere” un colloquio nascosto degli artisti nel corso dei secoli. Questo viaggio “fantastico” intrapreso da Burton ci suggerisce come inserirci in una processione che va verso un’improbabile paradiso, conducendoci nei labirinti più oscuri della nostra mente, in un’altra dimensione fatta di idee, di inconscio, di oscurità e di diversità intellettuale e fisica.
Il dialogo ideale delle esperienze, il cogliere una parvenza di continuità nel riconoscimento di “somiglianze” tra scrittori e cineasti, anche lontani nel tempo, scoprirne i nessi logici che li accomunano, è un processo comparativo che tenta di colmare il nostro vuoto interiore e che ci fa prendere consapevolezza che il concetto di verità assoluta non esiste, essa è sempre legata ad un punto di vista che ne determina la natura.

Nessun commento:

Posta un commento