venerdì 22 marzo 2013

Turchia - Ocalan depone le armi, i curdi forse

Trent'anni di lotta e quarantamila morti si chiudono in uno storico annuncio di Abdullah Ocalan. Il grande patriarca del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), ha scritto appositamente una lettera dalla sua isola-prigione di Irmali, uno scoglio che venne sgomberato apposta per controllare il leader curdo catturato in Kenya nel 1999. Ocalan si rivolge ai suoi militanti chiedendo di cessare immediatamente le ostilità con i soldati turchi e di abbandonare il Paese "per passare dal conflitto armato al confronto democratico". E i seguaci guidati da Murat Karayilan obbediscono immediatamente con grande soddisfazione del governo di Ankara che per il momento non si sbilancia più di tanto sul futuro della riconciliazione nazionale. E questo forse perché nonostante la svolta di Ocalan la pace non è affatto da dare per scontata.

Il primo scoglio alla normalizzazione dei rapporti è la controversa definizione di "turchicità" definita dalla legge 66 della Costituzione, in cui si definisce ogni cittadino unicamente come "turco". Questo passaggio controverso è retaggio del trauma della multietnicità ottomana che per una certa storiografia da ricchezza dell'impero si trasformò nel motore della sua disintegrazione. La conseguenza più diretta è l'assenza di un riconoscimento della cultura curda che deve aggiungere questa umiliazione ad una condizione di arretratezza dovuta alla loro collocazione periferica nello Stato. Ancora oggi la popolazione locale si vede priva di un'educazione statale nella propria lingua, mentre i politici locali non dispongono di sufficienti poteri di autonomia che potrebbero compensare la lontananza del governo centrale.
Per queste ed altre ragioni non tutti potrebbero essere convinti della buona fede del premier Erdogan o del presidente Gul. C'è chi accusa il governo di voler solo guadagnare tempo per continuare ad assimilare i curdi, trascurando volutamente lo sviluppo delle loro province per farli emigrare verso ovest e farli così entrare a più stretto contatto con la cultura della maggioranza. Forse sono stati proprio questi irriducibili che a gennaio hanno commesso l'omicidio a Parigi di tre attiviste curde di cui una, Sakine Cansiz, era stata tra le fondatrici del Pkk. La pista più accreditata è che le donne, sostenitrici del processo di pace tra movimento e governo turco, fossero state uccise allo scopo di complicare le trattative. Il messaggio di Ocalan ha dimostrato che queste sono comunque proseguite, ma l'attentato rivela l'esistenza di una corrente in forte disaccordo con la linea ufficiale che in caso di scarsi progressi politici potrebbe prendere il sopravvento e inasprire di nuovo la posizione del Pkk.
Intanto i combattenti curdi sono in procinto di ritirarsi nel Kurdistan iracheno, che costituisce assieme alla Siria (dove i curdi hanno preso la discussa decisione di schierarsi a fianco del regime di Assad) una sorta di profondità strategica del Pkk. Qualcuno dice pure che questa regione con il suo statuto di forte autonomia potrebbe dare al partito un nuovo modello da rivendicare al posto dell'indipendenza. Certo il momento scelto per spostare migliaia di militanti turchi in Iraq è abbastanza problematico viste le agitazioni tuttora in corso nel Paese. Qui il premier sciita al-Maliki è infatti assediato dai sunniti e non è benvisto neppure dai curdi che essendo insoddisfatti dei diritti di sfruttamento delle loro ricche risorse petrolifere potrebbero trovare nell'arrivo di quest'armata di confratelli uno strumento di più efficace persuasione.

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