E’ certo, infatti, che nel mondo di internet e dell’informazione a tutto tondo il concetto di protezione “sociale” ha modificato le soglie del nostro terrore, aumentato le possibilità di espansione delle nostre ansie ma allo stesso tempo ha cambiato per sempre la soglia della paura.
I più classici dei mostri e i più importanti horror – movie anni ’70 e ’80 hanno perduto infatti nella maggior parte dei casi la loro capacità di generare ansia e turbamento. Da una piccola ricerca condotta da me su un campionario di una cinquantina di persone più della metà concorda ed esenta da questo abisso solo L'Esorcista (1973) e Nightmare – Dal profondo della Notte (1984).
Ed è questo l’elemento che ha convinto le grandi industrie cinematografiche a virare sull’approfondimento di un concetto: in un mondo costituito da ragazzi che grazie alla rete hanno accesso a qualsiasi tipo di immagine, anche la più “terrificante”, che ne ha di fatto abituato gli occhi e le menti, l’unico modo per ricostruire la paura visiva è quello di infrangere il muro diegetico del film facendo entrare le storie horror nella realtà.
Già da qualche anno infatti con The Blair Witch Project (1999) e The Ring (2002) si è cercato di portar fuori dallo schermo, in un gioco virtuoso di verisimiglianza, la componente soprannaturale: il male di turno. Nel film di Verbinski infatti la bambina mostro usciva non solo metaforicamente ma materialmente dallo schemo di una tv. Questo concetto base è divenuto oggi il fulcro del nuovo cinema horror: ad una uscita concreta oggi corrisponde un’evoluzione concettuale nella quale una telecamera amatoriale prende il posto delle tecniche diegetiche del secolo scorso. Ed ecco il successo della trilogia di Paranormal Activity, di Rec e del recentissimo Chernobyl Diaries.
Film nei quali le barriere del racconto decadono, dove non esistono regole e confini prefigurati: la paura esiste laddove non vengono predisposti punti di riferimento convenzionali all’interno dei quali si possa affermare: “tranquilli è solo un film…”.
La tecnica documentaristica nell’horror ha di fatto sostituito la componente diegetico-fiabesca: tutta la nuova generazione di film ha abbandonato la componente più ingenua e, se vogliamo, meno veritiera per sconvolgere le regole di tutto ciò che, forse, crediamo di conoscere ma che è in grado di crearci maggior squilibrio.
Paradossalmente, oggi, nel genere horror sembra vincere il film a basso costo, il film documentario, l’antifilm. Presenze, ombre, impressioni hanno di fatto sostituito gli antichi stereotipi: zombie, vampiri (se non per saghe “sentimentali” stile Twilight) e i Freddy Krueger di turno vengono così dimenticati e surclassati.
Vedere il mostro in un retorico stile splatter non sembra attrarre più le nuove generazioni che preferiscono sperimentare, scoprire e girare film indipendenti, senza attori famosi e con un livello di scene violente solo apparentemente più soft. In definitiva tutto il genere ha apparentemente effettuato un salto all’indietro, preistorico, alle origini, in cui l’effetto speciale regredisce a semplice contorno, diviene solo uno strumento marginale in una storia che, nella nuova concezione, punta ad essere un “mostro” peggiore e più atroce di una faccia butterata.
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