Una scena tripartita, che per qualche strano cortocircuito mentale riporta
agli occhi il Pagamento del tributo di
Masaccio, unico affresco sul quale sono rappresentate tre scene che si svolgono
in tempi diversi, una sorta di fumetto ante
litteram. L’ambientazione invece ricorda l’America di Edward Hopper:
casetta bianca, pompa di benzina, aria vagamente fifties e luce straniante. Ed
è forse proprio Hopper la chiave di lettura giusta per Sangue sul collo del gatto (qui il trailer), testo del 1968 di Rainer W. Fassbinderdel 1968, messo in scena all’Elfo Puccini di Milano dal 27 novembre al 1
dicembre 2013 dall’Accademia degli Artefatti.
Phoebe Zeitgeist, aliena con sembianze umane, ma bizzarre, a metà tra
una drag queen dai tacchi alti e dai colori sgargianti e un’elegante signora in
tailleur di raso, si ritrova sulla terra. Non capisce il linguaggio umano, ma
ne apprende le parole, le frasi fatte che i protagonisti scagliano contro il
pubblico nei loro monologhi. Tutto il dramma sembra essere costruito da
monologhi, anche quando i personaggi dialogano tra di loro e quando le vicende
di cui narrano si intrecciano e sovrappongono. Phoebe osserva, assorbe le
parole, sembra non essere vista dagli altri personaggi, che appunto sembra
vedano solo loro stessi. Alla fine Phoebe impara le parole, le frasi, le ripropone,
ma totalmente decontestualizzate, aumentando l’effetto di straniamento che le “solitudini
parallele” dei personaggi causano. Alla fine anche Phoebe è sola, come tutti.
Ciò che lei fa è semplicemente rendere esplicito che le parole anche se vengono
sentite, non vengono ascoltate. Il messaggio, ciò che c’è dietro al suono, alla
fine non viene recepito. Ed eccoci allora tornare ai dipinti di Hopper, pervasi
di silenzio e solitudine.
La domanda che Fassbinder e Hopper sembrano porci è “Che senso ha
allora comunicare, se tanto siamo comunque soli? Se alla fine con tutte le
parole che conosciamo non riusciamo a comunicare?”. A noi la risposta, la sfida
di dimostrare che non sempre è così.
L’Accademia degli Artefatti riesce a farci immergere in questo clima
surreale e negativo, senza essere pesante, senza farci annoiare. Contribuisce
la scenografia, vera eccellenza dello spettacolo, dominata dalla casetta di
legno bianca, che si apre e si gira, facendoci vedere l’interno, sempre
diverso, e l’esterno, rappresentando di volta in volta una realtà diversa. La
musica, in parte dal vivo, spazia dagli anni ’50 alla musica elettronica e con
sapienti pennellate mette gli accenti giusti allo spettacolo.
Che dite, accettiamo la sfida?
Nessun commento:
Posta un commento