Da quello che si venne a sapere la buona parola dei
cosacchi gli era valso un incarico semplice nonché allettante, trattandosi di unirsi
ad un assedio sul punto di essere vinto e il guadagno per questo poteva
arrivare senza colpo ferire. Ovviamente non potevano andarci malridotti com’erano
e gli furon disposte nel limite del possibile nuove armi e vestiti, anche se la
maggior parte si dovette accontentare di una veloce rammenda e una risciacquata
e finiti i convenevoli ripartirono alla volta della futura conquista.
Non dovettero marciare a lungo, tanto che in un solo
giorno udirono il rumore di cannoni nascosti ancora dall’orizzione e il mattino
seguente avvistarono finalmente il campo del Sigismondo. L’esercito reale stava
cingendo da ogni lato una città grigia, quasi muta, come una donna offesa da una
lunga e spiacevole intrusione. E le sue mura spesse quanto montagne o i torrioni
disseminati ad ogni angolo la facevano apparire una preda affatto sprovveduta.
“Quella è Smolensk, uomini!” gliela presentò solenne
il comandante “Forse la città più solida di tutte le Russie! Che il cielo ci
assista!”
Passarono per campi divorati da gramigne e villaggi
in parte abbandonati e distrutti nei primi saccheggi, in parte occupati dai nobili,
ufficiali e magazzinieri che avevano il privilegio di un tetto. Attraversarono
dunque l’immensa distesa di tende che formava il resto del campo, finché giunti
all’altro capo si avvidero che ne mancava di strada per Smolensk, dovendo
scavalcare prima le mura costruite a riparo dei cannoni che forse eran quelli ascoltati
il giorno prima, poi superare un’ultima vallata tagliata da trincee che
lambivano il fossato e le mura. In queste gallerie il buon Bedrich notò subito che
il via vai di gente che a forza di scavare potevano già tirare coi loro fucili
contro i barbari che osavano affacciarsi sulle mura e neanche a farlo apposta
ne vide uno che dopo il colpo perse l’equilibrio e cadde al di qua della
barricata.
Durante il viaggio fino a Smolensk la compagnia era
stata accompagnata da tre cosacchi che l’introdusse ad un quarto della stessa razza
già di stanza nell’assedio, il quale non mostrò un sincero entusiasmo per la
marmaglia che gli si offriva ma accettò comunque di farsene carico. Fu chiaro
fin dall’inizio, questo sì, e spiegò che siccome alla città servivano davvero pochi
giorni per cadere al momento non aveva particolare necessità del loro aiuto e l’unica
cosa che li pregava di fare era di trovarsi un angolo dove star buoni ad aspettare
una chiamata per l’assalto finale che si stava preparando all’insaputa degli assediati.
Trascorse qualche altro giorno durante i quali Bedrich
e i suoi compagni si diedero più all’ozio che al guerreggiare. Passavano il
tempo giocare a dadi o carte con gli altri soldati, facendo amicizia e trovando
così modo di bere e mangiare insieme al calar del sole. Dopo aver preso
confidenza i più arditi non disdegnarono allora di cominciar a ronzare attorno
le vivandiere che a volte ci stavano volentieri, ma altre più scorbutiche si
alteravano e chiamavano subito i propri spasimanti che in un baleno tiravan
calci e s’accapigliavano col rivale.
Bedrich talora partecipava a questi svaghi, in altri
momenti si dilettava invece a guardare la città ignara dell’imminente fine, che
poi nemmeno lui sapeva quando sarebbe arrivata. Per di più a vedere quelle mura
che i cannoni non avevan scalfito in due anni di offesa e i soldati dalle
trincee con non certo miglior speranza di oltrepassarle dubitava persino di ciò
che aveva detto il nuovo capitano. In realtà, e questo a sua insaputa, la vera
battaglia si stava combattendo in tutt’altro luogo.
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