domenica 20 maggio 2012

Bedrich - XIII




Da quello che si venne a sapere la buona parola dei cosacchi gli era valso un incarico semplice nonché allettante, trattandosi di unirsi ad un assedio sul punto di essere vinto e il guadagno per questo poteva arrivare senza colpo ferire. Ovviamente non potevano andarci malridotti com’erano e gli furon disposte nel limite del possibile nuove armi e vestiti, anche se la maggior parte si dovette accontentare di una veloce rammenda e una risciacquata e finiti i convenevoli ripartirono alla volta della futura conquista.
Non dovettero marciare a lungo, tanto che in un solo giorno udirono il rumore di cannoni nascosti ancora dall’orizzione e il mattino seguente avvistarono finalmente il campo del Sigismondo. L’esercito reale stava cingendo da ogni lato una città grigia, quasi muta, come una donna offesa da una lunga e spiacevole intrusione. E le sue mura spesse quanto montagne o i torrioni disseminati ad ogni angolo la facevano apparire una preda affatto sprovveduta.
“Quella è Smolensk, uomini!” gliela presentò solenne il comandante “Forse la città più solida di tutte le Russie! Che il cielo ci assista!”
Passarono per campi divorati da gramigne e villaggi in parte abbandonati e distrutti nei primi saccheggi, in parte occupati dai nobili, ufficiali e magazzinieri che avevano il privilegio di un tetto. Attraversarono dunque l’immensa distesa di tende che formava il resto del campo, finché giunti all’altro capo si avvidero che ne mancava di strada per Smolensk, dovendo scavalcare prima le mura costruite a riparo dei cannoni che forse eran quelli ascoltati il giorno prima, poi superare un’ultima vallata tagliata da trincee che lambivano il fossato e le mura. In queste gallerie il buon Bedrich notò subito che il via vai di gente che a forza di scavare potevano già tirare coi loro fucili contro i barbari che osavano affacciarsi sulle mura e neanche a farlo apposta ne vide uno che dopo il colpo perse l’equilibrio e cadde al di qua della barricata.
Durante il viaggio fino a Smolensk la compagnia era stata accompagnata da tre cosacchi che l’introdusse ad un quarto della stessa razza già di stanza nell’assedio, il quale non mostrò un sincero entusiasmo per la marmaglia che gli si offriva ma accettò comunque di farsene carico. Fu chiaro fin dall’inizio, questo sì, e spiegò che siccome alla città servivano davvero pochi giorni per cadere al momento non aveva particolare necessità del loro aiuto e l’unica cosa che li pregava di fare era di trovarsi un angolo dove star buoni ad aspettare una chiamata per l’assalto finale che si stava preparando all’insaputa degli assediati.
Trascorse qualche altro giorno durante i quali Bedrich e i suoi compagni si diedero più all’ozio che al guerreggiare. Passavano il tempo giocare a dadi o carte con gli altri soldati, facendo amicizia e trovando così modo di bere e mangiare insieme al calar del sole. Dopo aver preso confidenza i più arditi non disdegnarono allora di cominciar a ronzare attorno le vivandiere che a volte ci stavano volentieri, ma altre più scorbutiche si alteravano e chiamavano subito i propri spasimanti che in un baleno tiravan calci e s’accapigliavano col rivale.

Bedrich talora partecipava a questi svaghi, in altri momenti si dilettava invece a guardare la città ignara dell’imminente fine, che poi nemmeno lui sapeva quando sarebbe arrivata. Per di più a vedere quelle mura che i cannoni non avevan scalfito in due anni di offesa e i soldati dalle trincee con non certo miglior speranza di oltrepassarle dubitava persino di ciò che aveva detto il nuovo capitano. In realtà, e questo a sua insaputa, la vera battaglia si stava combattendo in tutt’altro luogo.


Per leggere la storia dall'inizio cliccare su C'era una volta Bedrich  

Nessun commento:

Posta un commento