Tutti contro tutti. Bastano tre parole a descrivere gli sconvolgimenti che in un anno hanno quasi spazzato via l'entità statale un tempo conosciuta come Repubblica del Mali. A rendere le cose più difficili è il numero degli attori in campo sono tanti e il fatto che alcuni di loro non sono neppure collocabili in uno schieramento ben definito. Dimentichiamoci il lusso di uno scontro bipolare, perché ci troviamo piuttosto davanti un'epidemia che ha seminato ovunque il caos e ha trasformato quello che era considerato un modello di democrazia regionale in un vero buco nero.
C'era una volta una guerra tra i tuareg del nord del Mali e i trafficanti di droga o i contrabbandieri che transitavano lungo le antiche rotte carovaniere della regione creando scompiglio nel quieto vivere dei nomadi. Ovviamente i tuareg erano molto insofferenti della situazione, ma sfortunatamente per loro il governo era per metà corrotto e per l'altra metà colluso con questo commercio illecito e invece di proteggere quelle che si consideravano delle vittime, diceva che erano dei terroristi da reprimere con i soldati e le milizie mercenarie.
Questo finché in una primavera con dei venti più forti del normale i regni al di sopra delle sabbie caddero l'uno dopo l'altro, costringendo molti guerrieri che combattevano da anni al soldo dell'ormai decaduto colonnello Gheddafi a tornare nella loro terra natale, dove trovarono molta più sofferenza di quando l'avevano lasciata.
Forti dell'esperienza maturata all'estero, come pure degli arsenali che si erano portati dietro durante la ritirata, questi nuovi soldati decisero di unirsi ai movimenti che si battevano per l'autodeterminazione (come l'appena fondato Mnla) o si opponevano semplicemente al governo maliano per impedire che si ripetessero i soprusi del passato o in maniera più disincantata per riempire il vuoto di potere che Bamako aveva lasciato. I ribelli non solo riuscirono a reggere il confronto con le truppe regolari, che erano mal addestrate e scarsamente motivate dal rischiare la vita in un territorio considerato insidioso, ma le umiliarono in una serie di incredibili vittorie sul campo col risultato che l'intera regione settentrionale conosciuta come Azawad dichiarò l'indipendenza dal Mali in appena quattro mesi di battaglie.
Da allora le cose non fecero che precipitare. Il governo della capitale Bamako voleva riconquistare il terreno perduto, ma non riusciva più ad imporsi sui propri militari. Questi infatti pur di non affrontare nuovamente dei nemici che li avrebbero sicuramente fatti a pezzi decisero di rovesciare il presidente e guidare loro stessi i resti di una nazione che preferivano mantenere tranquilla in attesa di qualche miracolo. Una di queste speranze era che le eterogenee forze secessioniste sarebbero prima o poi collassate, cosa che avvenne però nel modo che tutti temevano.
I ribelli tuareg dell'Mnla vennero scalzati dai meglio organizzati fondamentalisti islamici legati più o meno direttamente al corpo locale di Al-Qaeda (Aqim), finendo per essere espulsi da un territorio che si riconosceva comunque molto più nell'islamismo moderato dei nomadi invece che di un radicalismo non meno feroce del caos dei narcotrafficanti. E se l'Azawad cadeva suo malgrado nell'orbita del fondamentalismo, le cose a Bamako non andavano certo meglio.
L'immobilismo della giunta militare comandata dal capitano Sanogo aveva deluso presto le aspettative del suo popolo, mentre la comunità internazionale non riusciva a conciliare chi ostentava prudenza per mantenere un qualche influsso come Algeria e Tunisia e quelli come il Niger che preoccupati di un contagio della rivolta spingevano per un'intervento internazionale e indispettivano Sanogo che non esitava a destituire i politici che la pensavano allo stesso modo. Ultima vittima eccellente è il premier Diarra, il cui arresto di qualche giorno fa ha segnato un altro passo per l'ingresso del Mali nel club degli stati falliti.
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