Lo scandalo ebbe inizio quando il settimanale Veja e il quotidiano Jornal do Brasil pubblicarono le prime indiscrezioni su presunte mazzette che il partito di maggioranza PT (Partido dos Trabalhadores) di Lula avrebbe promesso ai suoi alleati laburisti in cambio dei loro voti favorevoli sulle misure di governo.
Col passare dei mesi i media avrebbero scoperchiato un sistema di tangenti ben collaudato per garantire la stabilità dell'esecutivo che attingeva i suoi fondi da soldi pubblici che venivano ricavati da contratti fasulli tra compagnie statali e agenzie compiacenti. E come una palla di neve che s'ingrossa man mano che corre giù, le rivelazioni avrebbero travolto molte altre istituzioni come le Poste. Molti politici vennero sacrificati per salvare il presidente, che perse anche il suo braccio destro José Dirceu, ma riuscì in questo modo a venire rieletto nel 2006 e a spianare la strada quattro anni più tardi all'erede Dilma Rousseff.
Nel frattempo i tempi della giustizia sul caso Mensalo furono sorprendentemente lenti. Gli imputati infatti sono stati condannati solamente alla fine dell'anno scorso dalla Suprema Corte, contro cui hanno provato a fare ricorso (nel Paese è possibile) sulla base di cavilli e vizi formali che però i giudici hanno respinto confermando le pene previste. Addirittura uno dei magistrati della Corte Costituzionale ha sostenuto esplicitamente che Lula non poteva non sapere di quanto stava accadendo all'epoca nel suo partito.
All'inizio del pezzo ho citato l'Italia e non a caso. Uno dei condannati, il banchiere Henrique Pizzolato, è infatti venuto a trovarci grazie alla doppia cittadinanza che gli permetterà così di evitare i dodici anni di prigione che avrebbe dovuto scontare in Brasile. Di sicuro non avrà difficoltà a trovare da noi qualcuno pronto ad offrirgli la propria solidarietà sulla faccenda.
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